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moroE’ il 18 aprile 1978. Un martedì di trent’anni fa. Sono le 9.30 e Rieti sta per entrare nella storia. Le Brigate Rosse tengono prigioniero il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, da trentaquattro giorni. L’incubo è iniziato a Roma, il 16 marzo, in via Mario Fani, dove un commando di brigatisti ha annientato, sparando novantuno colpi, i cinque uomini di scorta e rapito lo statista mentre si stava recando alla Camera per il voto di fiducia al governo Andreotti, il primo con l’appoggio del Pci. Una telefonata anonima al centralino del “Messaggero” annuncia un nuovo comunicato delle Bierre, il settimo dall’inizio del sequestro. Diciotto righe in tutto, scritte a macchina con il carattere “Light Italic” e lasciate dentro un cestino dei rifiuti in Piazza Giuseppe Gioacchino Belli. In calce c’è la firma “Per il Comunismo: Brigate Rosse”, in cima al foglio la stella a cinque punte. La missiva non lascia dubbi: «comunichiamo l’avvenuta esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro, mediante “suicidio”. Consentiamo il recupero della salma, fornendo l’esatto luogo ove egli giace. La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi del lago Duchessa, altezza metri 1800 circa località Cartore (RI)».
Non è una mattina qualunque quella del 18 aprile. La Telefonata arriva mentre la polizia ha appena fatto irruzione in un appartamento al civico 96 di via Gradoli. Lì un’infiltrazione d’acqua ha permesso di scoprire un covo brigatista ancora “caldo”. Sembra la svolta giusta, quella che gli inquirenti attendono da quando hanno cominciato ad indagare sul sequestro. Il passo falso. Ma a gelare ogni aspettativa è proprio quella telefonata. Moro è morto. E’ un depistaggio, perché lassù, in cima ai monti della Duchessa, la primavera non è ancora arrivata, è ancora pieno inverno e il lago è ghiacciato. Tutto intorno c’è solo neve e silenzio. Fanno subito gli inquirenti, che cercano il presidente della Dc, a capire che lì non c’è. Il procuratore capo della Repubblica di Roma, Giovanni De Matteo, che coordinale indagini, alle 15 sorvola in elicottero il lago mentre centinaia di uomini, sotto di lui, setacciano le rive e i sommozzatori il fondale, dopo aver aperto un varco nel ghiaccio. Gli occhi angosciati di tutto il Paese sono puntati su quel lago, arrivano la Rai e gli inviati dei maggiori quotidiani nazionali. Lì il presidente Moro non c’è, ma non importa perché la messinscena è ormai servita. ...continua a leggere "Caso Moro: la falsa esecuzione del Lago della Duchessa"

downloadIl boss di Cosa Nostra Salvatore Lo Piccolo aveva in mente di eliminare due “infami” e i loro nomi, insieme ai suoi sospetti, li aveva già affidati ad un pizzino. Così la storia di due rapinatori, apparentemente semplici manovali della malavita siciliana, finisce per intrecciarsi con le sorti dell’erede di Bernardo Provenzano arrestato dalla polizia, insieme a suo figlio Sandro, il 5 novembre 2007, dopo ventiquattro anni di latitanza.
I due “infami”, fino a quel momento, non erano poi così noti se non fosse per quella rapina ad una villa compiuta nell’agosto del 2002, sempre a Palermo, nel complesso di Città Giardino. Lo Piccolo, i due fratelli, li vuole morti perché – così scrive in un pizzino – sono in contatto con i servizi segreti di Roma e Palermo.
La storia di Giuseppe e Salvatore Di Lorenzo, così si chiamano i rapinatori, va raccontata proprio da quell’anno, quando smarriscono un cellulare mentre stanno svaligiando la villa della signora D.D.M. A tradirli è proprio questa imperdonabile dimenticanza che lì porterà, dopo mesi di indagini, dietro le sbarre. Da quel cellulare, un Nokia 8210, e in particolare dalla memoria della sim 328/0968568 intestata al pregiudicato Umberto Costa, ma di fatto in uso a Giuseppe Di Lorenzo, si mette piede in un altro mondo.
Lo dice il consulente della Procura di Palermo, Gioacchino Genchi, incaricato dal pubblico ministero Maurizio Agnello, di scovare prove e indizi in quella e in altre sim sequestrate ai Di Lorenzo.
Tra quei numeri c’è qualcosa che va ben oltre quella rapina, in particolare nel traffico della sim 329/2961185, utilizzata da Salvatore Di Lorenzo ma intestata alla suocera.
Genchi, che di mafia e cellulari se ne intende, comprende per primo che i Di Lorenzo non sono solo dei semplici rapinatori. Da quei cellulari e dallo sviluppo dei tabulati delle varie utenze, che il perito definisce in alcuni casi anche “coperte”, vengono estrapolati decine di contatti telefonici con utenze, sia mobili che fisse, dei Carabinieri, della Polizia e di uffici operativi di Roma del Sisde (oggi Aisi, Agenzia informazioni e sicurezza interna).
Addirittura nelle fasi preparatorie ed esecutive della rapina e anche successivamente allo smarrimento del cellulare nella villa, il telefono di Giuseppe Di Lorenzo ha contatti con un sottufficiale dell’Arma, Matteo Di Giovanni, nome in codice Amedeo, in servizio a Palermo. Ma in quei tabulati, oltre agli intensi ed inquietanti rapporti telefonici dei Di Lorenzo con appartenenti alle forze dell’ordine e ai Servizi, c’è anche traccia – così svela Genchi nella sua poderosa relazione – di rapporti con pericolosi esponenti della criminalità organizzata delle cosche del mandamento di San Lorenzo e di Carini. Il consulente fa riferimento, in particolare, ai contatti intercorsi tra i Di Lorenzo e un altro mafioso, nipote di Salvatore Lo Piccolo che in quel momento, nel 2002, compare ancora tra i trenta maggiori ricercati d’Italia.
Concludendo la sua relazione Genchi riassumerà così il lavoro di analisi svolto spulciando tra gli oltre 440mila record di traffico telefonico: “Volendo sintetizzare lo spaccato che emerge dall’analisi dei dati possiamo dire che - nella più bonaria considerazione - appare una possibile sottovalutazione della caratura criminale dei due fratelli. I permanenti rapporti mantenuti con apparati dei Servizi, dei Carabinieri e della Polizia (nelle più disparate articolazioni), - prosegue l’esperto - hanno verosimilmente obnubilato le contestuali attività illecite dei fratelli Di Lorenzo ed il loro organico inserimento in un più elevato contesto criminale”.
Rapporti talmente stretti, a quanto pare, da permettere a Giuseppe Di Lorenzo di sfuggire ad un ordine di cattura che era stato emesso a suo carico, da circa quaranta giorni, dal tribunale di Velletri e che stranamente i carabinieri di Torretta avevano dimenticano in un cassetto. Una leggerezza che permetterà a Di Lorenzo di compiere quella rapina, proprio nei giorni in cui doveva essere già dietro le sbarre. Dal suo tabulato si evince che lo stesso si sentiva costantemente al telefono, anche nelle stesse ore dell’assalto, con i militari che avevano dimenticato di eseguire il suo arresto.
Il cerchio è chiuso. La signora D.D.M., che in casa ha una colluttazione con un rapinatore, riconosce, attraverso una foto mostrata dagli inquirenti, Salvatore Di Lorenzo, ma è solo un ulteriore conferma. I due fratelli, insieme ad altri quattro complici, finiscono in manette mentre la parte d’inchiesta che riguarda i contatti “istituzionali” è ancora top secret.
Ma chi sono veramente Giuseppe e Salvatore Di Lorenzo? Sono due “infami”? Come scrive Lo Piccolo. Oppure sono due confidenti del Sisde? Non sarebbe la prima volta, del resto i Servizi possono intrattenere rapporti, ovviamente a tutela della sicurezza democratica, con criminali e malavitosi.
Inquietanti interrogativi che riportano alla mente, tuttavia, circostanze che videro coinvolto lo stesso servizio segreto civile in torbide vicende su cui tuttora la magistratura siciliana sta tentando di fare luce. Come l’indagine della procura di Caltanissetta che, riprendendo una pista accantonata, indaga, a distanza di sedici anni, sul probabile coinvolgimento del Sisde nella strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta. Sempre grazie alle indagini del consulente Genchi, infatti, si accertò la presenza di una sede coperta del Sisde sul Monte Pellegrino, che sovrasta Palermo e via d’Amelio, all’interno del Castello Utveggio che ospita il Cerisdi, un centro di ricerche e studi manageriali. La circostanza venne fuori dall’analisi del tabulato del numero 0337/962596, intestato al boss Gaetano Scotto, che chiamò un’utenza fissa del Sisde installata proprio in quel castello. Suo fratello, Pietro Scotto, per conto della società Sielte, compì lavori di manutenzione sull’impianto telefonico della palazzina di via D’Amelio. Lavori necessari, si scoprì successivamente, per intercettare abusivamente la linea telefonica della madre del giudice Borsellino e quindi ottenere la conferma del suo arrivo nel pomeriggio del 19 luglio 1992. Dal castello Utveggio il Sisde scompare subito dopo l’inizio delle indagini e poco altro si sa.
Quella stagione, poi, fu segnata anche da un’altra discussa vicenda giudiziaria, scaturita in una condanna definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, che vide coinvolto il numero tre del Sisde, Bruno Contrada.
Sono più recenti, ma allo stesso modo inquietanti, infine, i riscontri sulle utenze risultate in uso al Governatore Salvatore Cuffaro, condannato in primo grado a cinque anni di reclusione per favoreggiamento e rivelazione di notizie riservate, nell’ambito dell’inchiesta sulle talpe alla Dda di Palermo. Una di quelle venti sim utilizzate dal presidente della Regione Sicilia, tra il 2001 e il 2002, ricevette 54 chiamate dall’ufficio del Sisde di via Notarbartolo a Palermo.

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 25 gennaio 2008 [pdf]

alpi hrovatinQuella di Vincenzo Li Causi, agente segreto, ucciso 14 anni fa in Somalia in circostanze misteriose, è la cronaca di un omicidio mai risolto, in cui un generale dell’Esercito e un capocentro del Sismi negarono all’epoca l’autorizzazione a catturare gli autori del delitto. Ma anche quella di due ministri della Giustizia che non concessero alla Procura di Roma di procedere contro chi ha deciso la morte del 41enne di Partanna. Di certo c’è solo il nome del bandito somalo che ha premuto il grilletto e l’ha fatta franca. Rimangono in piedi tanti interrogativi, come quello sul ruolo effettivo del Sismi nel Corno d’Africa. È molto probabile che una delle fonti della giornalista Ilaria Alpi, uccisa a Mogadiscio insieme al suo operatore, Miran Hrovatin, fosse proprio Li Causi. Tra i primi a accennare ai contatti tra la giornalista del Tg3 e l’agente segreto, e a possibili scambi di informazioni su traffici di armi e rifiuti tra i due, è il maresciallo Aloi, autore di un controverso “diario” sulla missione italiana. Addirittura, secondo altre fonti, l’amicizia risalirebbe al 1987, quando la Alpi conobbe Li Causi frequentando l’università “Ben Bourghiba” a Tunisi. A Forte Braschi, sede dell’intelligence militare, nessuno vuole parlare di questo omicidio, e del delicatissimo incarico che i vertici del Sismi avevano affidato a Li Causi, anche a Mogadiscio. Al ritorno da quella missione, poi, Li Causi sarebbe dovuto comparire dinanzi al giudice Felice Casson che stava indagando su Gladio. La stessa Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, pur occupandosi del caso, per stessa ammissione del suo presidente Carlo Taormina, non si è interessata alle ragioni e alle modalità con le quali è stato compiuto il delitto. E a chiedere i pochi documenti riguardanti Li Causi, acquisiti dalla Commissione, alla Camera rispondono che sono secretati. A accostare la morte dell’agente all’esecuzione della Alpi sarebbe proprio il filone sui traffici di rifiuti e di armi, destinate al regime di Siad Barre ma anche ai signori della guerra, da numerosi porti del sud alle coste somale. Chi era Li Causi? Nato a Partanna nel 1952, a soli 22 anni lascia i carabinieri e entra nel Sid, tre anni dopo in Gladio come istruttore e, successivamente, come responsabile del centro Scorpione di Trapani. Usa diverse identità di copertura, spesso si fa chiamare Maurizio Vicari, è specializzato in telecomunicazioni e viene impiegato in operazioni a altissimo rischio. Li Causi transita nel Sismi, e tra l’80 e l’81 segue Abu Abbas, il leader del Fronte di liberazione della Palestina implicato nel sequestro della Achille Lauro. Nel 1987 è inviato da Craxi a Lima, a armare e addestrare sotto copertura le guardie del corpo del presidente Alan Garcia. Il suo nome, un anno dopo, compare anche nelle carte del delitto di Mauro Rostagno. Forse anche quest’ultimo diventato scomodo nel tentativo di fare luce su un traffico di armi e su una pista d’atterraggio, in uso proprio al centro Scorpione, a Kinisia. Li Causi, siamo ormai nel 1993, è in Somalia assegnato al centro Sismi di Mogadiscio. Il 12 novembre, l’agente è su un veicolo da ricognizione insieme al maresciallo Giulivo (Ivo) Conti, anch’egli del Sismi, e a altri tre militari. Le ricostruzioni della scena del delitto sono discordanti. La prima riferisce che la pattuglia, intorno alle 18, si imbatte in un assalto da parte di predoni somali a un convoglio civile e che un colpo vagante colpisce Li Causi alle spalle. La seconda è completamente diversa: la pattuglia ingaggia, dopo aver sorpassato il convoglio di civili, un conflitto a fuoco con i predoni che termina con l’uccisione del maresciallo. A questo punto il mezzo abbandona la zona e corre verso il comando di Balad dove Li Causi arriva agonizzante. Per lui non c’è nulla da fare. Il medico Salvatore Neri parla di una forte emorragia interna. A ucciderlo non è un colpo di un diffusissimo Kalashnikov bensì di un fucile di precisione sovietico, un Dragunov, ma a quanto pare nessuno in Somalia è stato mai visto imbracciare un’arma di questo tipo. In una circostanza del genere chiunque ordinerebbe un rastrellamento della zona dove i militari sono stati attaccati, invece il capocentro del Sismi a Mogadiscio, Gianfranco Giusti, ordina al generale Carmine Fiore che è al comando del contingente di non intervenire. Nessuno si preoccupa di ricostruire quanto è avvenuto. Niente autopsia e all’appello, come se non bastasse, mancano anche i necessari nulla osta di sepoltura che dovrebbero certificare che quella salma è realmente di Li Causi. Sulla dinamica pesa un altro interrogativo: quel convoglio trasportava solo inermi civili? È una domanda chiave perché un’altra ipotesi è che gli italiani stessero scortando un camion carico di armi. Era forse questo il delicato incarico di Li Causi? A attivarsi è solo il capo della polizia somala, Ismail Moallin Mohamed: sulla base delle dichiarazioni di alcuni testimoni, individua l’autore del delitto e reperta numerosi bossoli sul luogo dell’agguato. Si tratta di Nur Hassan Alì, detto Tuug Bidahrlee, che in somalo vuol dire “testa pelata” o “ladro calvo”. La polizia si affretta a segnalare il luogo dove si nasconde l’assassino ma dal comando italiano non viene impartito alcun ordine di cattura, perché il Sismi ha avocato a sé ogni attività inerente l’omicidio. Nelle ore successive nessuno chiede all’altro agente, Giulivo Conti, e agli altri militari, di riconoscere Nur Hassan Alì. La polizia somala procede perché ha contro il malvivente altre accuse, e il bandito verrà giudicato da un tribunale islamico per numerosi omicidi di cittadini somali, ma non per quello dell’agente segreto. Il Sismi, in difficoltà di fronte alle continue richieste della Procura, rifila una seconda e improbabile ricostruzione dei fatti: verosimilmente, tre giorni dopo l’uccisione di Li Causi, in un conflitto a fuoco con i carabinieri viene catturato un bandito che ammette di aver fatto parte della banda responsabile dell’uccisione “accidentale” del maresciallo. Anche questa notizia risulterà, però, priva di fondamento. La Procura di Roma, giudicando attendibile la sola ricostruzione fornita dal capo della polizia somala, chiede il 15 aprile 1998 al Guardasigilli, Giovanni Maria Flick, l’autorizzazione a procedere contro il “ladro calvo” ma la risposta arriva un mese dopo e è per giunta negativa. Il pm Franco Ionta ci riprova a marzo dell’anno successivo, prima di chiedere l’archiviazione per difetto di procedibilità e questa volta a rifilargli un altro secco “no” è il ministro Oliviero Diliberto. La verità è scomoda, e forse non interessa a nessuno. Sette mesi dopo, il capo della polizia ottiene asilo in Italia e riferisce alla Digos di Roma che il bandito Nur Hassan Alì, dopo essere evaso, sarebbe stato ucciso.

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 23 novembre 2007 [pdf]

ADAMO BOVE«Un pensiero e una preghiera per colui che da un anno non è più con noi! Un sms perché non si dimentichi. Fatelo girare grazie». È un sms a ricordare ai dipendenti della sede romana della Telecom di via di Torre Rossa che è trascorso un anno da quando il loro collega, Adamo Bove, è precipitato da un viadotto della tangenziale di Napoli. Un sms inviato da un ignoto e firmato Sec Ti, Security Telecom Italia, che ha fatto il giro dei cellulari aziendali e che ha riportato la memoria a quel venerdì 21 luglio di un anno fa quando il corpo del manager della Security Governance fu rinvenuto in fondo a un cavalcavia al Vomero. Un volo di una trentina di metri, poi lo schianto, il silenzio, che lasciano tanti, troppi dubbi sulla sua morte. Quarantadue anni, laureato in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, commissario capo della polizia fino al 1998, con un passato alla Dia ricco di successi per la cattura di pericolosi latitanti del calibro di Francesco “Sandokan” Schiavone e Mario Fabbrocino. Adamo Bove quel 21 luglio, dopo aver posteggiato a lato della rampa di via Cilea la Mini di sua moglie, Wanda Acampa, oncologa al policlinico di Napoli, si sarebbe gettato nel vuoto schiantandosi su una carreggiata della tangenziale. Era solo, lo afferma un testimone, un motociclista che si trovava alla barriera della tangenziale e che ha assistito alla terribile sequenza. Un uomo che si sporge e un attimo dopo precipita. L’esperto in sicurezza aziendale lascia l’auto accesa con le quattro frecce che lampeggiano, all’interno nessuna lettera d’addio, il suo cellulare registra una sola telefonata in entrata fatta da un collega circa dieci minuti prima dello schianto. Sembra la cronaca di una decisione presa a freddo, di un suicidio premeditato da chissà quanto tempo. Non è così. La storia non è questa. Adamo Bove non aveva alcun motivo per togliersi la vita. A non crederci è lo stesso magistrato chiamato a occuparsi del caso, il pm Giancarlo Novelli della procura di Napoli, che apre un fascicolo a carico di ignoti con l’ipotesi di istigazione al suicidio. Non ci crede nessuno anche tra i familiari: la moglie, i genitori, il fratello gemello Guglielmo che in Telecom dirige l’ufficio legale. Un anno dopo la loro rabbia si sfoga sulle pagine di Repubblica, in un annuncio a pagamento: «Sappiamo che prima di morire Adamo ha conosciuto suo malgrado la vergogna. La peggiore cui può essere condannato un essere umano. Quella che subisce chi non ha commesso peccato. Adamo ha conosciuto la vergogna per il vociare infamante che lo ha circondato». Per raccontare la storia di quest’uomo è necessario fare un passo indietro e sottolineare alcune stranezze, almeno tre, che legano con un filo rosso gli ultimi mesi di vita del manager ad altrettante vicende che sono al centro dell’attenzione nazionale. È certo, infatti, che Bove si sia occupato, collaborando attivamente con gli inquirenti, di scovare i cellulari utilizzati dagli agenti della Cia (26 quelli identificati) e dai colleghi italiani del Sismi per portare a termine il sequestro dell’imam egiziano Abu Omar, compiuto il 17 dicembre 2003 a Milano. A dirlo sono gli stessi magistrati milanesi che indagano sul sequestro insieme alla Digos: Bove diede un contributo fondamentale indicando quali fossero i cellulari da intercettare in condizioni di estrema segretezza, trattandosi di utenze in uso ad agenti segreti. Almeno quattro di queste utenze, si saprà poi, hanno certamente a che fare con il sequestro: tre sim risulteranno in uso al Sismi e una al gruppo Pirelli/Telecom, a Tiziano Casali, il capo della sicurezza personale dell’allora presidente, Marco Tronchetti Provera. L’indagine, oltre a travolgere i vertici del servizio segreto militare con l’arresto del numero due, Marco Mancini, mina Telecom, i suoi vertici aziendali e la già assai discussa Security. Bove si ritrova in trincea, turbato, stretto in una morsa: da un lato sta aiutando la magistratura a far luce su una vicenda complicata con pesanti implicazioni internazionali, dall’altro sa che non si può fidare di nessuno dentro la sua azienda, essendo evidenti i legami di alcuni suoi colleghi, il capo della sicurezza Giuliano Tavaroli per primo, con il Sismi. Ma Bove ha fatto il suo dovere almeno in altre due occasioni: aiuta la polizia anche nelle indagini legate al cosiddetto Laziogate, l’inchiesta scattata dopo la scoperta di un caso di spionaggio ai danni dei candidati alla presidenza della Regione Lazio, Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini, nel tentativo di favorire Francesco Storace. Abu Omar, Laziogate, l’attività illecita di dossieraggio avviata dalla Security Telecom/Pirelli: il quadro è quasi completo. Bove intuisce, per primo, che il marcio è proprio dentro Telecom, ma è troppo tardi. Il Garante della privacy contesta alla compagnia l’esistenza di un sistema informatico fuori dagli standard, in grado di spiare i tabulati telefonici di utenze fisse e mobili senza lasciare traccia. Il sistema si chiama Radar, è a Padova: è la “porta senza firewall” lasciata appositamente aperta e da cui è uscito di tutto. Radar, secondo gli inquirenti, è l’applicativo, interrogabile dalla intranet fin dal 1999, di cui si sarebbe servito per anni anche il Sismi, grazie all’amicizia di Tavaroli con Mancini, per spiare migliaia di cittadini, imprenditori, politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo. La Telecom corre ai ripari: denuncia l’esistenza di un’immensa falla nei suoi sistemi e Bove contribuisce a segnalare ogni abuso, è il suo lavoro. Tavaroli - che finirà in manette con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali per l’acquisizione di informazioni coperte dalla privacy - esce di scena. Bove, verosimilmente, finisce nel mirino dell’Internal Auditing: il servizio ispettivo della compagnia telefonica getta ombre sulla sua figura, perché dal suo ufficio è possibile «operare con modalità anomale e non certificabili» sui sistemi informatici, su Radar. L’Audit che incastra Bove porta la firma del super esperto in sicurezza informatica Fabio Ghioni (che finirà poi in manette per l’attacco ai computer dell’ex Ad di Rcs, Vittorio Colao, e del giornalista Mucchetti). Siamo al paradosso, alla beffa: Bove passa da Telecom a Tim nel 2002, quando Radar è operativo già da tre anni e, quattro anni dopo, nel 2006, l’azienda gli sta contestando di aver coperto il suo illecito utilizzo. È il 10 giugno 2006, Bove è assediato, nervoso, amareggiato, si sente tradito, scomodo. Il Sole 24 ore anticipa i contenuti dell’inchiesta dell’Internal Auditing, fa il suo nome, il manager appare turbato ai suoi familiari. Prova vergogna, ma senza aver commesso peccato. Si accorge di essere pedinato. A Roma, vicino la sua abitazione in via Federico Cesi, mentre sta rientrando con la moglie nota un furgone bianco. Si ricorda che è lì da giorni, è aperto, fruga all’interno e scopre che è intestato a un autonoleggio. Stranezze. Anche a Napoli, racconta a suo padre, qualcuno lo segue con modalità anomale, quasi volesse farsi notare. Il 15 luglio, sei giorni prima della sua morte, Bove blocca in strada un misterioso personaggio che risponde con un what? alla domanda “Chi sei? Che vuoi?”. Ma c’è una certezza: Bove, contrariamente a quanto verrà diffuso, non è indagato da alcuna procura. Quel 21 luglio si congeda dalla moglie con un sereno «ci vediamo dopo», sono le 11.30 e la coppia è a Parco Margherita, dove ha acquistato casa e dove vuole trasferirsi. Bove, stranamente, per raggiungere la vecchia abitazione, in via Luigia Sanfelice al Vomero, cioè a circa cinque chilometri da Parco Margherita, sceglie il percorso più lungo: prende la tangenziale a Fuorigrotta e attraversa Napoli, poi esce a via Cilea. Qualcuno lo pedina? Alle 12.40, il cacciatore di latitanti, l’uomo che fino al quel momento sa di aver fatto fino in fondo il suo dovere, è giunto all’appuntamento con la morte. Per mania di persecuzione o per mano assassina?
Guglielmo Bove, il fratello di Adamo. «Non ci arrendiamo, vogliamo la verità e continueremo a seguire le indagini con la massima fiducia». Parla a left a nome di tutta la famiglia, Guglielmo. «Non abbiamo una spiegazione, Adamo aveva un terrore pazzesco del vuoto, soffriva di vertigini, una condizione incompatibile con la ricostruzione della sua morte. Era assediato da vivo e lo è ancora adesso, basta digitare il suo nome su Google per rendersi conto che tutti i personaggi coinvolti nello scandalo intercettazioni continuano ad accusare esclusivamente lui. Adottano tutti la stessa linea difensiva: nessuno accusa nessuno, né verso l’alto né verso il basso, perché il capro espiatorio è stato già individuato. Abbiamo massima fiducia nei magistrati che stanno indagando sulla morte di Adamo, a Napoli e a Milano, siamo consapevoli che è assai difficile provare l’istigazione al suicidio, tuttavia molto lavoro è stato fatto e ce n’è ancora altrettanto da fare».
Cristina Sivieri Tagliabue, giornalista, ex collega di Adamo Bove, per cinque anni responsabile editoriale Telecom. Il giorno della sua morte gli ha scritto una poesia sul blog criativity.com. Adamo l’aveva conosciuto in Tim: «Ci siamo divertiti – racconta la giornalista a left- sì, la parola giusta è divertiti. Era ironico. Una persona squisita, piacevole al contrario di altri dirigenti Tim. Con lui si parlava bene, al di fuori dei ruoli». Cristina lascia la Telecom nel 2005 ma continua a sentirsi con Bove: «Fino a quando sono iniziati a uscire i primi articoli sulla questione delle intercettazioni, da quel momento era diventato impossibile parlarci, avevamo entrambi paura di essere intercettati. Lo sentivo turbato, cambiato, temeva di dirmi cose troppo riservate. Sono tornata in Telecom il mese scorso, ho chiesto agli ex colleghi cosa pensassero di tutta questa vicenda. C’è molto scetticismo sull’ipotesi del suicidio, l’aria che si respira è pesante, uno strano silenzio».

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 3 agosto 2007 [pdf]