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raiLa notizia è passata, in sordina, senza la necessaria traduzione, ed è una di quelle che lasciano qualche dubbio e fanno storcere il naso ai più maligni. Ricapitolando: alla Rai, Radio Televisione Italiana, c’è un nucleo di dipendenti, forse in gran parte giornalisti, dotato di un particolare nulla osta di sicurezza (il Nos) rilasciato dai Servizi segreti. L’élite di operatori della tv pubblica avrebbe il compito di vigilare sulle informazioni ritenute vitali per l’integrità dello Stato. Di questo gruppo di dipendenti, tuttavia, se ne sa davvero poco: non si sa quanti sono, forse una cinquantina; non si conoscono i loro nomi; non si sa quanti di essi sono giornalisti e né cosa facciano esattamente all’interno dell’azienda. In Rai esiste un ufficio - questo è certo -, detto “Punto di controllo Nato-Ueo” e la conferma, a qualche anno dalle prime indiscrezioni, l’ha fornita recentemente il Governo, anche se scarna nei contenuti.
Che cos’è il Nos. Il nulla osta di sicurezza autorizza una persona fisica o giuridica a trattare informazioni classificate. Lo rilascia, ed eventualmente lo revoca, l’Ufficio centrale per la segretezza del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis). Il Nos ha più livelli e viene rilasciato “sulla base di un accertamento dell’affidabilità dell’interessato”, in termini di fedeltà alle Istituzioni della Repubblica, alla Costituzione e ai suoi valori, nonché di rigoroso rispetto del segreto. Il nulla osta può essere rilasciato ai dipendenti di amministrazioni o enti pubblici e alle imprese che intendano operare in settori che comportano la trattazione di informazioni classificate o che implicano il ricorso a speciali misure di sicurezza.
L’interrogazione. La circostanza, secondo cui a viale Mazzini esisterebbe un gruppo di dipendenti Rai dotati di Nos, è circolata negli ambienti giornalistici per qualche anno ma nessuna conferma, finora, era mai giunta, anzi erano piovute solo smentite. Dopo l’uscita dei primi articoli, in particolare, l’allora direttore generale della Rai, Felice Cappon, si precipitò a smentire il chiacchiericcio, arrivando, nel luglio del 2007, a negare ufficialmente l’esistenza di tale “nucleo” fin davanti alla commissione di Vigilanza. Poi, un anno dopo, un deputato, il radicale Maurizio Turco, presentò un’interrogazione alla Camera, per capire meglio di cosa si trattava, non contento delle parole, forse poco convincenti, di Cappon. L’interrogazione era diretta al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro delle Comunicazioni. «Da notizie di stampa - interrogava Turco - si apprende quanto segue: (in Rai, ndr) sarebbe attivo un Organo esecutivo di sicurezza, alle dirette dipendenze del Ministero delle comunicazioni, con il compito di “vagliare” le notizie da diffondere; di questa struttura farebbero parte circa 50 giornalisti che avrebbero il potere di autorizzare il nulla osta di sicurezza sulla divulgazione di notizie sulle reti della tv pubblica; la rivelazione dell'esistenza di un organo preposto alla tutela del segreto di Stato in Rai, sarebbe stata fatta la settimana scorsa, durante una riunione dell'Autorità nazionale per la sicurezza, da parte del rappresentante del dicastero delle Comunicazioni (all’epoca era Paolo Gentiloni, ndr) dal cui Organo centrale di sicurezza dipenderebbe la struttura di viale Mazzini».
La conferma. Passano due anni da quell’interrogazione e una conferma, alla fine, arriva ed è pure ufficiale. È vero, il nucleo esiste e si chiama proprio così: “Punto di controllo Nato-Ueo”. Ha comunicarlo alla Camera, per conto del Governo, il 27 aprile scorso, è stato il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito. La notizia, seppur scarna, passa in sordina: esce su un paio di quotidiani e nessuno la approfondisce. Il Governo, parlando della particolare struttura, minimizza ma non smentisce: «Il ministero dello Sviluppo economico, appositamente interpellato dall’Ucse - scrive Palazzo Chigi alla Camera - ha confermato che i compiti del “Punto di controllo Nato-Ueo” istituito in ambito Rai sono esclusivamente quelli di verifica ed attuazione delle misure volte alla tutela delle informazioni classificate. Il nulla osta di sicurezza - prosegue la nota della presidenza del Consiglio - viene rilasciato ai dipendenti Rai in ragione dell’espletamento di incarichi di natura amministrativa e non riguarda, quindi, l’attività di giornalista».
La nota della Rai. Il successivo 7 maggio le agenzie battono la nota della direzione generale della Rai, sollecitata anche dall’Usigrai a fornire spiegazioni in merito “ad alcune illazioni sulla presenza dei servizi segreti” tra le mura di Saxa Rubra. «In Rai opera dagli anni '60 un “Punto controllo Nato/Ueo” - precisa anche la Direzione risorse umane e organizzazione di viale Mazzini - in quanto l'azienda è titolare di servizio pubblico. Il "Punto" opera in attuazione di provvedimenti legislativi per la sicurezza nazionale. La Rai è impegnata a garantire la funzionalità delle sue capacità trasmissive e il suo possibile uso da parte dello Stato in casi di emergenza civile e militare. Per questi motivi attraverso il punto controllo Nato/Ueo è previsto il rilascio della qualifica Nos ad alcuni direttori per le loro funzioni gestionali e operative. Tale attività è strettamente limitata ai compiti istituzionali previsti dalle normative e non ha mai riguardato - conclude la nota - l'informazione e le notizie da diffondere da Telegiornali, Giornali Radio e Reti della Rai».
La legge e il caso “betulla”. Detto questo, vale la pena rileggersi alcuni articoli della legge 124 del 3 agosto 2007 con cui è stato riformato il sistema dei Servizi segreti italiani e dai cui sono nati il Dis e le due nuove agenzie di Intelligence: l’Aisi (ex Sisde) e l’Aise (ex Sismi). In particolare gli articoli che riguardano la categoria dei giornalisti sono due: l’articolo 17 comma 5, che specifica che i Servizi non possono operare attività d’indagine e analisi “nei confronti di giornalisti professionisti iscritti all'albo”. E l’articolo 21 comma 11 che specifica che in nessun caso “il Dis e i servizi di informazione per la sicurezza possono, nemmeno saltuariamente, avere alle loro dipendenze o impiegare in qualità di collaboratori o di consulenti giornalisti professionisti o pubblicisti”. In sintesi i Servizi non possono né condurre attività d’indagine sui giornalisti né arruolarli. La cronaca recente, tuttavia, - oltre a raccontare dell’esistenza in Rai di un “nucleo” di dipendenti che proprio dal Dis ha ottenuto uno specifico nulla osta di sicurezza - narra anche di cronisti che hanno avuto rapporti con l’Intelligence e di altri che si sono ritrovati, invece, spiati. Stiamo parlando - per esempio - del caso di Renato Farina, meglio conosciuto come la fonte “betulla”. L’ormai ex giornalista, oggi deputato del Pdl, ha ammesso di aver collaborato, quando era vicedirettore di Libero, con il Sismi, fornendo informazioni e pubblicando notizie false in cambio di denaro. Per questo episodio - che si è intrecciato sia con lo scandalo dei dossier Telecom che con il sequestro dell’imam Abu Omar - Farina fu radiato dall'Ordine, perché, come abbiamo visto, un giornalista non può lavorare per i Servizi segreti. Il caso “betulla” è altra cosa, ovviamente. Ma alla luce di quanto è emerso tra le mura della Rai è legittimo chiedersi se sia legale o meno che alcuni giornalisti abbiamo ottenuto un Nos quando una legge vieta a questa categoria di maneggiare notizie segrete e avere rapporti, di ogni tipo, con gli apparati di sicurezza.
Il caso Ilaria Alpi. Torna alla memoria, poi, una brutta storia, che riguarda direttamente l’attività della Rai e lo zampino delle “barbefinte”. In questa storia c’era e c’è il forte sospetto che gli apparati dell’Intelligence, e non solo, abbiano giocato sporco, ficcando pesantemente il naso nell’attività giornalistica. Il 19 marzo 1994 la giornalista, inviata del Tg3, Ilaria Alpi e il suo operatore, Miran Hrovatin, sono in Somalia, dove opposte fazioni combattono per il controllo dei traffici illegali e del territorio. Il contingente italiano sta ormai abbandonando Mogadiscio e la missione Onu e in questo scenario, di guerra, i due inviati del servizio pubblico stanno facendo il loro lavoro. Ilaria e Miran partono da Bosaso in aereo verso Mogadiscio, hanno raccolto interviste, testimonianze, in particolare quella del sultano Abdullahy Moussa Bogor, e immagini, tante. Lavorano da tempo a una pista molto delicata: le navi regalate dalla Cooperazione internazionale alla Somalia sospettate di trasportare, con coperture anche nell’intelligence, armi e rifiuti tossico nocivi. Alle 15,10 scatta l'agguato. L'auto con a bordo la Alpi e il suo operatore viene bloccata da una jeep. Un proiettile sparato a distanza ravvicinata da un killer sfonda il parabrezza e colpisce Miran alla testa. Un altro raggiunge la parte superiore della nuca di Ilaria. È un'esecuzione. Qualche ora dopo, tra gli effetti personali riconsegnati alla famiglia di Alpi, risulteranno mancanti 3 dei 5 taccuini trovati nella stanza dove la giornalista alloggiava a Mogadiscio, la sua macchina fotografica e alcune videocassette betacam. Un giornalista e un operatore della televisione svizzera italiana filmeranno le operazioni di preparazione dei bagagli di Ilaria Alpi, per lasciarne traccia, e testimonieranno di aver visto, in quella stanza d’albergo, una ventina di cassette, non le sei che giungeranno a Roma. Poche, ma importanti tracce di quanto la Alpi aveva scoperto, restano solo negli appunti trovati sulla sua scrivania nella redazione del Tg3, a Saxa Rubra, tra questi uno: “1400 miliardi di lire: dove è finita questa impressionante mole di denaro?”. La storia di Ilaria Alpi racconta anche una lunga serie di depistaggi, che non hanno ancora permesso alla magistratura di scoprire la verità. Racconta anche del ruolo, assai discutibile, che ebbe il Sismi in questa vicenda e di quanto accadde sul volo che riportava la salma della giornalista a Roma. È lì, su quell’aereo, che secondo gli inquirenti una “manina” avrebbe sottratto da quei bagagli le videocassette e i taccuini della giornalista. Di certo si sa solo che i due giornalisti svizzeri portarono tutti gli oggetti dall’albergo alla nave Garibaldi dove i militari fecero l'inventario. Nella lista compaiono anche i 5 block notes della Alpi, ma in Italia ne arriveranno soltanto 2, senza appunti. I bagagli, prima di essere spediti in aereo insieme alle salme, furono sigillati e piombati. L’aereo fece scalo a Luxor, dove ad aspettare le bare c'era una delegazione della Rai e le immagini di quella breve cerimonia raccontano che i bagagli arrivarono lì ancora piombati, ma a Roma la piombatura non c'era più. Se ne occuparono direttamente i Servizi o chi altro? Le informazioni che Ilaria Alpi aveva raccolto in Somalia e le immagini filmate da Miran Hrovatin - per dirla tutta - erano per caso ritenute lesive per l’integrità dello Stato?

 di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 27 maggio 2010 [pdf]

alpi hrovatinQuella di Vincenzo Li Causi, agente segreto, ucciso 14 anni fa in Somalia in circostanze misteriose, è la cronaca di un omicidio mai risolto, in cui un generale dell’Esercito e un capocentro del Sismi negarono all’epoca l’autorizzazione a catturare gli autori del delitto. Ma anche quella di due ministri della Giustizia che non concessero alla Procura di Roma di procedere contro chi ha deciso la morte del 41enne di Partanna. Di certo c’è solo il nome del bandito somalo che ha premuto il grilletto e l’ha fatta franca. Rimangono in piedi tanti interrogativi, come quello sul ruolo effettivo del Sismi nel Corno d’Africa. È molto probabile che una delle fonti della giornalista Ilaria Alpi, uccisa a Mogadiscio insieme al suo operatore, Miran Hrovatin, fosse proprio Li Causi. Tra i primi a accennare ai contatti tra la giornalista del Tg3 e l’agente segreto, e a possibili scambi di informazioni su traffici di armi e rifiuti tra i due, è il maresciallo Aloi, autore di un controverso “diario” sulla missione italiana. Addirittura, secondo altre fonti, l’amicizia risalirebbe al 1987, quando la Alpi conobbe Li Causi frequentando l’università “Ben Bourghiba” a Tunisi. A Forte Braschi, sede dell’intelligence militare, nessuno vuole parlare di questo omicidio, e del delicatissimo incarico che i vertici del Sismi avevano affidato a Li Causi, anche a Mogadiscio. Al ritorno da quella missione, poi, Li Causi sarebbe dovuto comparire dinanzi al giudice Felice Casson che stava indagando su Gladio. La stessa Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, pur occupandosi del caso, per stessa ammissione del suo presidente Carlo Taormina, non si è interessata alle ragioni e alle modalità con le quali è stato compiuto il delitto. E a chiedere i pochi documenti riguardanti Li Causi, acquisiti dalla Commissione, alla Camera rispondono che sono secretati. A accostare la morte dell’agente all’esecuzione della Alpi sarebbe proprio il filone sui traffici di rifiuti e di armi, destinate al regime di Siad Barre ma anche ai signori della guerra, da numerosi porti del sud alle coste somale. Chi era Li Causi? Nato a Partanna nel 1952, a soli 22 anni lascia i carabinieri e entra nel Sid, tre anni dopo in Gladio come istruttore e, successivamente, come responsabile del centro Scorpione di Trapani. Usa diverse identità di copertura, spesso si fa chiamare Maurizio Vicari, è specializzato in telecomunicazioni e viene impiegato in operazioni a altissimo rischio. Li Causi transita nel Sismi, e tra l’80 e l’81 segue Abu Abbas, il leader del Fronte di liberazione della Palestina implicato nel sequestro della Achille Lauro. Nel 1987 è inviato da Craxi a Lima, a armare e addestrare sotto copertura le guardie del corpo del presidente Alan Garcia. Il suo nome, un anno dopo, compare anche nelle carte del delitto di Mauro Rostagno. Forse anche quest’ultimo diventato scomodo nel tentativo di fare luce su un traffico di armi e su una pista d’atterraggio, in uso proprio al centro Scorpione, a Kinisia. Li Causi, siamo ormai nel 1993, è in Somalia assegnato al centro Sismi di Mogadiscio. Il 12 novembre, l’agente è su un veicolo da ricognizione insieme al maresciallo Giulivo (Ivo) Conti, anch’egli del Sismi, e a altri tre militari. Le ricostruzioni della scena del delitto sono discordanti. La prima riferisce che la pattuglia, intorno alle 18, si imbatte in un assalto da parte di predoni somali a un convoglio civile e che un colpo vagante colpisce Li Causi alle spalle. La seconda è completamente diversa: la pattuglia ingaggia, dopo aver sorpassato il convoglio di civili, un conflitto a fuoco con i predoni che termina con l’uccisione del maresciallo. A questo punto il mezzo abbandona la zona e corre verso il comando di Balad dove Li Causi arriva agonizzante. Per lui non c’è nulla da fare. Il medico Salvatore Neri parla di una forte emorragia interna. A ucciderlo non è un colpo di un diffusissimo Kalashnikov bensì di un fucile di precisione sovietico, un Dragunov, ma a quanto pare nessuno in Somalia è stato mai visto imbracciare un’arma di questo tipo. In una circostanza del genere chiunque ordinerebbe un rastrellamento della zona dove i militari sono stati attaccati, invece il capocentro del Sismi a Mogadiscio, Gianfranco Giusti, ordina al generale Carmine Fiore che è al comando del contingente di non intervenire. Nessuno si preoccupa di ricostruire quanto è avvenuto. Niente autopsia e all’appello, come se non bastasse, mancano anche i necessari nulla osta di sepoltura che dovrebbero certificare che quella salma è realmente di Li Causi. Sulla dinamica pesa un altro interrogativo: quel convoglio trasportava solo inermi civili? È una domanda chiave perché un’altra ipotesi è che gli italiani stessero scortando un camion carico di armi. Era forse questo il delicato incarico di Li Causi? A attivarsi è solo il capo della polizia somala, Ismail Moallin Mohamed: sulla base delle dichiarazioni di alcuni testimoni, individua l’autore del delitto e reperta numerosi bossoli sul luogo dell’agguato. Si tratta di Nur Hassan Alì, detto Tuug Bidahrlee, che in somalo vuol dire “testa pelata” o “ladro calvo”. La polizia si affretta a segnalare il luogo dove si nasconde l’assassino ma dal comando italiano non viene impartito alcun ordine di cattura, perché il Sismi ha avocato a sé ogni attività inerente l’omicidio. Nelle ore successive nessuno chiede all’altro agente, Giulivo Conti, e agli altri militari, di riconoscere Nur Hassan Alì. La polizia somala procede perché ha contro il malvivente altre accuse, e il bandito verrà giudicato da un tribunale islamico per numerosi omicidi di cittadini somali, ma non per quello dell’agente segreto. Il Sismi, in difficoltà di fronte alle continue richieste della Procura, rifila una seconda e improbabile ricostruzione dei fatti: verosimilmente, tre giorni dopo l’uccisione di Li Causi, in un conflitto a fuoco con i carabinieri viene catturato un bandito che ammette di aver fatto parte della banda responsabile dell’uccisione “accidentale” del maresciallo. Anche questa notizia risulterà, però, priva di fondamento. La Procura di Roma, giudicando attendibile la sola ricostruzione fornita dal capo della polizia somala, chiede il 15 aprile 1998 al Guardasigilli, Giovanni Maria Flick, l’autorizzazione a procedere contro il “ladro calvo” ma la risposta arriva un mese dopo e è per giunta negativa. Il pm Franco Ionta ci riprova a marzo dell’anno successivo, prima di chiedere l’archiviazione per difetto di procedibilità e questa volta a rifilargli un altro secco “no” è il ministro Oliviero Diliberto. La verità è scomoda, e forse non interessa a nessuno. Sette mesi dopo, il capo della polizia ottiene asilo in Italia e riferisce alla Digos di Roma che il bandito Nur Hassan Alì, dopo essere evaso, sarebbe stato ucciso.

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 23 novembre 2007 [pdf]

Jolly2«Con i traffici di rifiuti e gli affondamenti delle navi non c’entriamo nulla». Sono in mare dal 1921 e non ci stanno proprio a farsi etichettare come trafficanti di scorie e affondanavi. La Ignazio Messina & C. Spa, una flotta di quindici navi che collegano i principali porti del Mediterraneo, è la società armatrice della Jolly Rosso. Dal quel 14 dicembre 1990, quando la loro motonave portacontainer si arenò nella spiaggia cosentina di Formiciche di Amantea, i vertici aziendali della compagnia respingono con forza ogni accusa. La procura di Paola - che seguendo le rivelazioni di un pentito della ‘ndrangheta nei giorni scorsi ha individuato sul fondo del basso Tirreno un altro misterioso relitto - punta il dito contro l’armatore genovese che avrebbe tentato di affondare la sua nave per smaltire illegalmente un carico di scorie. La linea difensiva della Ignazio Messina, tuttavia, è sempre la stessa da sedici anni: è scritta in un dossier di quasi quattrocento pagine redatto nel 2004. La verità, che prova a demolire pezzo per pezzo il teorema della procura, è tutta nella ricostruzione dei fatti: la nave, di ritorno da Malta per La Spezia con un carico di tabacco, nylon e prodotti per bevande, si arenò a causa di alcune falle create nello scafo da un semi-rimorchio, ospitato nella stiva, che ruppe gli ancoraggi e sbatté più volte contro la paratia di sinistra. Quindi nessun tentativo doloso di affondarla. Nessun carico di rifiuti o scorie radioattive da occultare in fondo al mare. Tutto ciò avvenne a causa delle pessime condizioni meteo (mare forza 8/9). Da quelle falle entrò acqua, erano circa le 7, il comandante avvertì un rumore proveniente dalla stiva, la nave sbandò, si inclinò e finì per spiaggiarsi lungo il litorale di Amantea. «La Messina - spiega ad Avvenimenti il suo amministratore delegato Andrea Gais - ha la coscienza pulita. L’immagine della nostra società è stata infangata, calunniata e massacrata per sedici anni da una campagna di stampa di cui evidentemente ci sfuggono le origini». Quella mattina nel mare di Calabria c’era anche un’altra nave della stessa compagnia: la Jolly Giallo in navigazione verso Tripoli. I magistrati sono arrivati ad ipotizzare un suo coinvolgimento: in sostanza questa seconda nave faceva da appoggio al piano di affondamento. «Nessun mistero. È la balla più grossa che abbiamo sentito finora - la secca replica di Gais -, la Giallo era stata dirottata in quella zona dalle autorità marittime, è stata l’ultima nave ad arrivare lì dopo l’Sos ed era obbligata ad avvicinarsi ed intervenire. Fu un ultimo tentativo di salvare nave e carico: la Giallo doveva agganciare la Rosso e trainarla al largo ma l’operazione di soccorso purtroppo non andò a buon fine». E quelle mappe, quei documenti trovati a bordo della Rosso con il marchio della Oceanic disposal management Inc., la holding del faccendiere, “affossascorie”, Giorgio Comerio? «Sulla nostra nave - aggiunge l’amministratore delegato della Ignazio Messina - , lo ribadiamo, non c’erano documenti della Odm. Quella società è nata nel 1993, tre anni dopo l’incidente della Rosso». Ma la Ignazio Messina deve difendersi anche dalle pesanti rivelazioni di un pentito: un ex boss della ‘ndrangheta, che in un memoriale consegnato all’Antimafia dice di essersi occupato, nell’ottobre del 1992 e su loro mandato, di affondare tre navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi proprio al largo della Calabria. «Nell’arco di un paio di settimane - scrisse il boss - abbiamo affondato tre navi indicate dalla società Messina. La Yvonne A, ci disse la Ignazio Messina, trasportava 150 bidoni di fanghi, la Cunski 120 bidoni di scorie radioattive e la Voriais Sporadais 75 bidoni di varie sostanze tossico-nocive. Ci informò anche che le imbarcazioni erano tutte al largo della costa calabrese in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza». E ora le novità. L’8 gennaio scorso i tecnici di una società, la Blue Tek, incaricata di effettuare le ricerche dalla procura di Paola hanno individuato proprio al largo di Cetraro, a circa quattro miglia dalla costa, una nave, lunga circa cento metri e larga almeno quindici, adagiata ad una profondità di circa quattrocento metri. Il relitto è danneggiato nella parte centrale e il sofisticato Side Scan Sonar utilizzato per scandagliare il fondo del Tirreno ha individuato, nel raggio di alcune centinaia di metri attorno al relitto, una misteriosa macchia scura. Più a nord di questo punto, a circa dieci miglia dalla costa di Belvedere, quasi in acque internazionali, gli esperti hanno riferito al magistrato Francesco Greco di aver individuato un altro corpo, definito “estraneo”, lungo circa centotrenta metri, che si trova a cinquecento metri di profondità. È la conferma che aspettavano gli inquirenti dopo le rivelazioni del boss? «Che un non meglio identificato pentito – controbatte Andrea Gais - abbia detto di aver avuto rapporti con noi lo smentiamo nella maniera più assoluta e categorica. Non sappiamo neanche chi è questo personaggio e questo fantomatico memoriale noi non l’abbiamo mai letto, ce l’ha L’espresso, noi no... Su quali prove si basa la nostra colpevolezza? La nostra compagnia ha più di ottantanni - prosegue – non accettiamo che un boss ci venga a dire che quelle navi le abbiamo fatte affondare noi. Non possiamo accettarlo. Questo boss mente, è stato foraggiato da qualcuno che vuole continuare a tirarci in ballo e non sappiamo per quale motivo». Tutte accuse da provare. Sarà necessario immergersi in mare e capire cosa c’è sotto. Come sarà necessario scavare nelle discariche nell’entroterra di Amantea, dove sono state trovate tracce di metalli pesanti e altre sostanze tossiche e dove secondo il pm Greco sarebbero stati smaltiti, cioè sotterrati illecitamente, i rifiuti trasportati dalla Rosso. Stando ai riscontri dei Lloyd’s di Londra e di Legambiente sono almeno venticinque le navi affondate dolosamente nel Tirreno e nel mar Ionio. «Nel maggio 1993 all’altezza del Canale di Sicilia - ricorda Enrico Fontana dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente - affondò certamente la Marco Polo. Come per la Koraline, affondata al largo di Ustica, in alcuni container ritrovati, fu riscontrata una radioattività da torio 234. Navi fantasma sono anche la Mikigan, affondata il 31 ottobre 1986 nel mar Tirreno calabrese, con il suo carico misterioso e la Rigel affondata il 21 settembre del 1987 al largo di Capo Spartivento. Le dinamiche del loro naufragio e di come si siano “lasciate andare” verso i fondali presentano impressionanti analogie». La Yvonne A, la Cunski e la Voriais Sporadais che fine hanno fatto? Sono lì, sul fondo del Tirreno? Secondo il Lloyd’s Marine Intelligence Unit, l’unità che svolge indagini sulle navi per conto dell’assicuratore marittimo londinese, la Yvonne A e la Cunski non risultano disperse: sono state demolite rispettivamente nel 2004 e nel 1991, mentre non è stata trovata alcuna nave che abbia mai avuto il nome Voriais Sporadais.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 3 febbraio 2006 [pdf]

2626_14_mediumCosa lega la morte della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, avvenuta a Mogadiscio il 20 marzo 1994, con le decine di “navi a perdere” affondate nel Mediterraneo con il loro carico di pericolosi rifiuti? E qual è il ruolo del faccendiere Giorgio Comerio? Qualcuno questa indagine ha tentato di svolgerla, sollevando per un attimo il coperchio. Ma la verità, come spesso capita in questo paese, si è insabbiata allo stesso modo come la mattina del 14 dicembre 1990 si è arenata sulla spiaggia di Formiciche di Amantea la motonave Rosso della Ignazio Messina di Genova. Quella mattina, lungo le coste cosentine, il mare è mosso, c’è una tempesta in corso: mare forza otto. La Rosso dieci giorni prima salpa da La Spezia destinazione Napoli e poi Malta da dove riparte il 13 per far ritorno in Liguria. A bordo ci sono 16 membri dell’equipaggio, nella stiva: 9 container con tabacco e liofilizzati e altri 25 vuoti. Il comandante lancia via radio il mayday cinque minuti prima delle 8, è a circa 15 miglia dalla costa. Alle 10 un elicottero mette in salvo l’equipaggio. La nave è ormai ingovernabile, ha il timone bloccato e imbarcando acqua naviga fino alla spiaggia dove si arena intorno alle 14. L’inchiesta della capitaneria di porto di Vibo Valentia concluderà che la motonave si è arenata «a causa di uno sbandamento dovuto a una infiltrazione nella stiva poppiera e al successivo blocco dei motori». Cominciano le indagini e le stranezze, fin dalle prime battute, non mancano. Attorno a quella motonave, che rimarrà “spiaggiata” oltre sei mesi, ci sono insoliti movimenti: in un rapporto della capitaneria si fa riferimento, tra l’altro, alla presenza a Formiciche di agenti segreti e faccendieri del luogo. Durante le ispezioni, anche subacquee, non emergono falle però un filmato amatoriale mostrerà la presenza di una strana apertura sulla fiancata sinistra. Da qui l’ipotesi che dietro l’allagamento della stiva ci sia un tentativo doloso di affondare la motonave. Un passo indietro: nel 1988, per conto del governo italiano, la Jolly Rosso, così si chiamava allora, riporta dal Libano novemila fusti di rifiuti tossici-nocivi illegalmente esportati a Beirut da aziende italiane. Rimane in disarmo nel porto di La Spezia per due anni poi cambia nome. Il tentativo di affondarla, finito male sulle spiagge consentine, è una messinscena? Oppure è proprio lì che deve finire il suo misterioso carico? Quelle coste, è certo, in quel periodo, sono teatro di continui seppellimenti. Lì vicino ci sono delle discariche e le indagini si concentrano in particolare su alcuni scavi. Testimoni affermano che due mesi dopo l’arenamento della Rosso alcuni camion di notte hanno trasportato rifiuti da Formiciche fino nell’entroterra: in località Grassulio e Foresta di Serra d’Aiello, e lì li avrebbero sotterrati. Le analisi accerteranno in quei terreni alte concentrazioni di granulato di marmo e metalli pesanti sotto forma di fanghi industriali, mentre altri materiali sconosciuti sono ancora sul fondale di Formiciche. Dopo una prima archiviazione, l’inchiesta finisce alla Procura di Reggio Calabria nelle mani del pm Francesco Neri e del capitano di fregata Natale De Grazia: sono i primi a fare sul serio. L’indagine si allarga ed entra in scena il faccendiere Giorgio Comerio. Ma, fatto assai più importante, la Rosso entra nell’elenco delle navi sospette, come la Rigel affondata in circostanze poco chiare nel 1987 a largo di Capo Spartivento, forse con un carico di materiali radioattivi. L’ingegnere Giorgio Comerio nasce nel 1945 a Busto Arsizio, vive a Lugano, nel 1993 fonda una holding denominata Odm, Oceanic disposal management Inc., registrata alle Isole Vergini britanniche con sede in Svizzera. Ufficialmente l’Odm è frutto di un progetto della Comunità europea messo a punto per smaltire scorie nucleari, ma le attività dell’ingegner da Busto Arsizio sono sospettate di coprire il traffico internazionale di rifiuti. Il nome di Comerio, oltre a intrecciarsi con la vicenda Rosso e con la morte di Ilaria Alpi, è legato all’affondamento nel Mediterraneo di oltre quaranta navi cariche di veleni. Lui, tuttavia, si ritiene vittima di una montatura ambientalista: di Greenpeace che, nel 1995, denuncia il suo progetto di seppellire scorie nucleari in Sud Africa. L’ingegnere faccendiere si guadagna ben presto l’appellativo di “affossa-scorie”. È sua, infatti, l’idea di “sparare” a circa 80 metri al di sotto dei fondali marini, siluri, lunghi fino a 25 metri da 200 tonnellate ciascuno, riempiti di scorie radioattive. Per questo l’ingegnere si ritrova indagato per smaltimento illegale di rifiuti nucleari tossico-nocivi. Tutto comincia quando a un controllo doganale a Chiasso, ai confini con la Svizzera, la guardia di finanza ferma un socio di Comerio, Elio Ripamonti, che ha con se i progetti dei penetratori che l’ingegnere sta ideando. Ne vuole costruire 35mila e ha già individuato, contattando una cinquantina di paesi, tra questi Capo Verde, Zaire, Congo, Sierra Leone, Zambia e Somalia, 80 siti di inabissamento e 12 aree ottimali dove sotterrare rifiuti. Il passo è breve. Quei penetratori, i rapporti tra Comerio e strani personaggi portano gli inquirenti della Procura di Reggio Calabria a delineare inquietanti scenari. In più Comerio, scrive la guardia di finanza in un rapporto del 1998, è interessato, per conto di un ente di Stato iraniano, all’acquisto della Jolly Rosso, a bordo della quale verranno rinvenuti documenti e mappe riconducibili alle attività dello stesso faccendiere. Tuttavia la trattativa d’acquisto con la Ignazio Messina non verrà mai conclusa. Il Parlamento comincia a occuparsi di lui, in particolare la commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Si indaga anche sui traffici di armi tra paesi esteri, sulla Somalia e sui rapporti tra Comerio e Ali Mahdi, uno dei signori della guerra somala. Chi è veramente Comerio? Il Sismi, il servizio segreto militare, lo considera un truffatore, un millantatore, ma intanto si parla anche dei suoi contatti con i servizi argentini e di una partita di telemine per affondare tre incrociatori della marina britannica alle Falkland. È proprio nel corso di una perquisizione in casa di Comerio, a Garlasco, siamo nel 1995, viene fuori il certificato di morte di Ilaria Alpi - gli inquirenti troveranno anche altri documenti riguardanti la Jolly Rosso, e un’agenda del 1987 dove c’è un appunto “lost the ship” (la nave è persa) che riguarda proprio la Rigel -. Quel certificato, lo ha detto di recente lo stesso pm Neri di fronte alla commissione parlamentare che indaga sulla morte di Ilaria Alpi, è dentro una cartella gialla con la scritta “Somalia”. Il certificato, emesso forse dal Comune di Roma, viene sequestrato e acquisito agli atti dell’inchiesta di Reggio Calabria. La commissione, seguendo le indicazione del pm Neri, andrà a Reggio Calabria a cercarlo ma dentro quei fascicoli non c’è più. «Non è mai esistito - dirà durante un’audizione nel luglio scorso lo stesso presidente della commissione, Carlo Taormina - né è stato mai trasmesso ad alcuna altra autorità». Che fine ha fatto il certificato di morte trovato nello studio di Comerio? Torniamo alla motonave Rosso. Il sospetto che trasportasse rifiuti tossici e radioattivi è sempre più forte. Il procuratore Neri va avanti nella sua inchiesta, ma avviene qualcosa che determinerà inevitabilmente le conclusioni. Il suo pool è a un passo dalla verità quando, in circostanze ancora poco chiare, muore il capitano Natale De Grazia. È un onesto inquirente, un ufficiale di marina, che tenta di fare il proprio dovere. De Grazia è scrupoloso e con determinazione indaga per mesi: ha il delicato compito di riepilogare gli affondamenti delle navi nei mari Tirreno e Ionio. Deve ricostruire le rotte, localizzare i relitti e dare un nome a ognuna di quelle navi. Per fare questo gira in lungo e in largo il Mediterraneo. Va quasi fino in fondo il coraggioso capitano e scopre le rotte dei rifiuti che passano per La Spezia e per la Calabria. L’ufficiale si avvicina troppo alla verità. Il 13 dicembre del 1995 è in auto, con i suoi colleghi, sta andando a Massa Marittima e La Spezia. De Grazia ha un appuntamento molto importante: deve verificare alcuni registri nautici e sequestrare i piani di affondamento di 180 navi partite da Massa. A La Spezia deve interrogare l’equipaggio della motonave Rosso. Non ci riuscirà. Morirà all’età di 39 anni durante una sosta, a Nocera Inferiore, stroncato da un arresto cardiocircolatorio. Una morte sospetta, che farà arrestare l’intera attività investigativa della Procura di Reggio Calabria. A Massa Marittima, gli inquirenti ci torneranno dopo la sua morte, ma la capitaneria nel frattempo si è allagata e quei documenti non si trovano più. Il 14 novembre 2000 il Tribunale di Reggio Calabria archivia definitivamente l’inchiesta sul caso Jolly Rosso. La verità non è ancora venuta fuori. Passano tre anni. A ricominciare da capo è chiamata, per competenza territoriale, la Procura di Paola con il sostituto Francesco Greco. Ci sono nuove prove, ci sono dei testimoni, la presenza in mare, vicino alla Rosso, di un’altra motonave gemella, la Jolly Giallo, che avrebbe avuto un ruolo. Anche questa volta c’è la volontà di andare fino in fondo, mancano però fondi e uomini per indagare e il rischio prescrizione incombe su questa difficile inchiesta. La partita si allarga ed è ancora aperta.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 23 dicembre 2005 [pdf]