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de graziaGALLICO (Reggio Calabria) - “Se non l’hanno ucciso è morto sempre a causa di quell’inchiesta”. Quando ti trovi davanti una grande donna la prima cosa che pensi è che al suo fianco ci deve essere sempre un grande uomo. Anna Vespia oggi ha 50 anni, fa l’insegnante, e la prima cosa che dice, quando inizia a raccontare la sua storia, è che suo marito, Natale De Grazia, “era un grande uomo”. Anna è una donna forte e testarda che non si è mai rassegnata. Una donna che ha cresciuto due figli, da sola, che ha ancora voglia di riaprire il capitolo della "strana" morte di suo marito. Sono passati quattordici anni da quel 12 dicembre 1995 quando il suo compagno, il capitano di fregata Natale De Grazia della Capitaneria di porto di Reggio Calabria, uscì dalla stessa casa di Gallico, dove Anna vive ancora oggi con i suoi figli, Giovanni e Roberto, di 24 e 21 anni. Varcò la porta, salì su un auto civetta insieme a due carabinieri e non tornò più. Doveva andare a La Spezia perché stava conducendo un’indagine delicatissima per conto della Procura di Reggio Calabria. Un’indagine nata da un dossier di Legambiente che parlava di decine di navi cariche di veleni affondate nei nostri mari, “navi a perdere”, ma anche di forti collusioni mafiose, di interessi internazionali, di spie e faccendieri. Natale De Grazia con i suoi uomini faceva questo: cercava le navi colate a picco con il loro carico di veleni e riferiva al pm Francesco Neri. De Grazia era arrivato a un passo dalla verità e la sua morte è diventato un mistero. Accade dopo cena, durante quel viaggio da Reggio Calabria a La Spezia. L’auto dei carabinieri è appena ripartita da Nocera Inferiore, dove i tre militari hanno cenato sostando per un po’ in un ristorante appena fuori l’autostrada. Lui è seduto davanti, dorme, poi si accascia, l’auto si ferma, i due carabinieri lo soccorrono, venti minuti dopo arriva un’autoambulanza ma non c’è più niente da fare. Il marinaio è morto, dicono d’infarto. Non ci crede nessuno, compreso il pm Neri che ancora oggi dice che la sua vita, e quella del suo investigatore migliore, era in pericolo per colpa di quell’inchiesta. L’hanno avvelenato? Per le due autopsie, stranamente compiute dallo stesso medico legale, il capitano morì di crepacuore a 39 anni. Da quel momento comincia a morire anche l’inchiesta sulle navi dei veleni, perché De Grazia ne era il motore. Conosceva una per una le rotte di quella trentina di navi "maledette" di cui aveva raccolto abbastanza prove per affermare che non erano colate a picco per cause “naturali”. Oggi, entrando in quella casa, a Gallico, dove da quel giorno nulla è cambiato, ti accorgi subito che tra quelle mura c’ha vissuto un marinaio. Alle pareti ci sono gli encomi, i crest, le foto in divisa, e c’è anche quella medaglia d’oro, al merito di marina, consegnata nel 2004 da Ciampi. “Quando la procura lo chiamò per quell’incarico - racconta Anna Vespia - era contento, si sentiva orgoglioso, investito da un importante responsabilità. Lo faceva con passione, con dedizione. Per lui era una missione non un dovere d’ufficio. Me ne aveva parlato delle indagini che stava svolgendo, di quelle navi affondate e cariche di schifezze. Negli ultimi tempi era teso, spesso assente, - racconta ancora la moglie di De Grazia -. Aveva capito che era una storia che puzzava, su cui era necessario lavorare con grande riserbo. Me ne parlò sottovoce solo una volta, eravamo a letto, come se anche lì qualcuno lo potesse ascoltare. Mi disse che quell’indagine andava fatta per il futuro dei nostri figli e del nostro mare”. Poi c’è un foglio di carta, un fax sbiadito, inspiegabilmente scomparso dai faldoni dell’inchiesta a cui lavorava De Grazia, che lega questa brutta storia all’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Quel fax lo trova De Grazia tre mesi prima di morire nel corso di una perquisizione a Garlasco. Lo scova in casa del faccendiere Giorgio Comerio, l’ingegnere che progettava un nuovo sistema di smaltimento delle scorie tramite “penetratori” di profondità. Non è un fax qualunque, il mittente è straniero, e il testo riguarda la Alpi: è il suo certificato di morte. Cosa ci faceva quel certificato in casa di Comerio? Chi lo ha sottratto? Di certo si sa solo che De Grazia lo sequestrò, fece accertamenti su quell’utenza straniera e poi morì. La stessa sorte toccata a Ilaria Alpi che, guarda caso, indagava sugli stessi traffici.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 10 dicembre 2009 [pdf]

Relazione sulla morte del Capitano De Grazia redatta nel 2013 dalla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti [leggi]

Jolly2«Con i traffici di rifiuti e gli affondamenti delle navi non c’entriamo nulla». Sono in mare dal 1921 e non ci stanno proprio a farsi etichettare come trafficanti di scorie e affondanavi. La Ignazio Messina & C. Spa, una flotta di quindici navi che collegano i principali porti del Mediterraneo, è la società armatrice della Jolly Rosso. Dal quel 14 dicembre 1990, quando la loro motonave portacontainer si arenò nella spiaggia cosentina di Formiciche di Amantea, i vertici aziendali della compagnia respingono con forza ogni accusa. La procura di Paola - che seguendo le rivelazioni di un pentito della ‘ndrangheta nei giorni scorsi ha individuato sul fondo del basso Tirreno un altro misterioso relitto - punta il dito contro l’armatore genovese che avrebbe tentato di affondare la sua nave per smaltire illegalmente un carico di scorie. La linea difensiva della Ignazio Messina, tuttavia, è sempre la stessa da sedici anni: è scritta in un dossier di quasi quattrocento pagine redatto nel 2004. La verità, che prova a demolire pezzo per pezzo il teorema della procura, è tutta nella ricostruzione dei fatti: la nave, di ritorno da Malta per La Spezia con un carico di tabacco, nylon e prodotti per bevande, si arenò a causa di alcune falle create nello scafo da un semi-rimorchio, ospitato nella stiva, che ruppe gli ancoraggi e sbatté più volte contro la paratia di sinistra. Quindi nessun tentativo doloso di affondarla. Nessun carico di rifiuti o scorie radioattive da occultare in fondo al mare. Tutto ciò avvenne a causa delle pessime condizioni meteo (mare forza 8/9). Da quelle falle entrò acqua, erano circa le 7, il comandante avvertì un rumore proveniente dalla stiva, la nave sbandò, si inclinò e finì per spiaggiarsi lungo il litorale di Amantea. «La Messina - spiega ad Avvenimenti il suo amministratore delegato Andrea Gais - ha la coscienza pulita. L’immagine della nostra società è stata infangata, calunniata e massacrata per sedici anni da una campagna di stampa di cui evidentemente ci sfuggono le origini». Quella mattina nel mare di Calabria c’era anche un’altra nave della stessa compagnia: la Jolly Giallo in navigazione verso Tripoli. I magistrati sono arrivati ad ipotizzare un suo coinvolgimento: in sostanza questa seconda nave faceva da appoggio al piano di affondamento. «Nessun mistero. È la balla più grossa che abbiamo sentito finora - la secca replica di Gais -, la Giallo era stata dirottata in quella zona dalle autorità marittime, è stata l’ultima nave ad arrivare lì dopo l’Sos ed era obbligata ad avvicinarsi ed intervenire. Fu un ultimo tentativo di salvare nave e carico: la Giallo doveva agganciare la Rosso e trainarla al largo ma l’operazione di soccorso purtroppo non andò a buon fine». E quelle mappe, quei documenti trovati a bordo della Rosso con il marchio della Oceanic disposal management Inc., la holding del faccendiere, “affossascorie”, Giorgio Comerio? «Sulla nostra nave - aggiunge l’amministratore delegato della Ignazio Messina - , lo ribadiamo, non c’erano documenti della Odm. Quella società è nata nel 1993, tre anni dopo l’incidente della Rosso». Ma la Ignazio Messina deve difendersi anche dalle pesanti rivelazioni di un pentito: un ex boss della ‘ndrangheta, che in un memoriale consegnato all’Antimafia dice di essersi occupato, nell’ottobre del 1992 e su loro mandato, di affondare tre navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi proprio al largo della Calabria. «Nell’arco di un paio di settimane - scrisse il boss - abbiamo affondato tre navi indicate dalla società Messina. La Yvonne A, ci disse la Ignazio Messina, trasportava 150 bidoni di fanghi, la Cunski 120 bidoni di scorie radioattive e la Voriais Sporadais 75 bidoni di varie sostanze tossico-nocive. Ci informò anche che le imbarcazioni erano tutte al largo della costa calabrese in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza». E ora le novità. L’8 gennaio scorso i tecnici di una società, la Blue Tek, incaricata di effettuare le ricerche dalla procura di Paola hanno individuato proprio al largo di Cetraro, a circa quattro miglia dalla costa, una nave, lunga circa cento metri e larga almeno quindici, adagiata ad una profondità di circa quattrocento metri. Il relitto è danneggiato nella parte centrale e il sofisticato Side Scan Sonar utilizzato per scandagliare il fondo del Tirreno ha individuato, nel raggio di alcune centinaia di metri attorno al relitto, una misteriosa macchia scura. Più a nord di questo punto, a circa dieci miglia dalla costa di Belvedere, quasi in acque internazionali, gli esperti hanno riferito al magistrato Francesco Greco di aver individuato un altro corpo, definito “estraneo”, lungo circa centotrenta metri, che si trova a cinquecento metri di profondità. È la conferma che aspettavano gli inquirenti dopo le rivelazioni del boss? «Che un non meglio identificato pentito – controbatte Andrea Gais - abbia detto di aver avuto rapporti con noi lo smentiamo nella maniera più assoluta e categorica. Non sappiamo neanche chi è questo personaggio e questo fantomatico memoriale noi non l’abbiamo mai letto, ce l’ha L’espresso, noi no... Su quali prove si basa la nostra colpevolezza? La nostra compagnia ha più di ottantanni - prosegue – non accettiamo che un boss ci venga a dire che quelle navi le abbiamo fatte affondare noi. Non possiamo accettarlo. Questo boss mente, è stato foraggiato da qualcuno che vuole continuare a tirarci in ballo e non sappiamo per quale motivo». Tutte accuse da provare. Sarà necessario immergersi in mare e capire cosa c’è sotto. Come sarà necessario scavare nelle discariche nell’entroterra di Amantea, dove sono state trovate tracce di metalli pesanti e altre sostanze tossiche e dove secondo il pm Greco sarebbero stati smaltiti, cioè sotterrati illecitamente, i rifiuti trasportati dalla Rosso. Stando ai riscontri dei Lloyd’s di Londra e di Legambiente sono almeno venticinque le navi affondate dolosamente nel Tirreno e nel mar Ionio. «Nel maggio 1993 all’altezza del Canale di Sicilia - ricorda Enrico Fontana dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente - affondò certamente la Marco Polo. Come per la Koraline, affondata al largo di Ustica, in alcuni container ritrovati, fu riscontrata una radioattività da torio 234. Navi fantasma sono anche la Mikigan, affondata il 31 ottobre 1986 nel mar Tirreno calabrese, con il suo carico misterioso e la Rigel affondata il 21 settembre del 1987 al largo di Capo Spartivento. Le dinamiche del loro naufragio e di come si siano “lasciate andare” verso i fondali presentano impressionanti analogie». La Yvonne A, la Cunski e la Voriais Sporadais che fine hanno fatto? Sono lì, sul fondo del Tirreno? Secondo il Lloyd’s Marine Intelligence Unit, l’unità che svolge indagini sulle navi per conto dell’assicuratore marittimo londinese, la Yvonne A e la Cunski non risultano disperse: sono state demolite rispettivamente nel 2004 e nel 1991, mentre non è stata trovata alcuna nave che abbia mai avuto il nome Voriais Sporadais.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 3 febbraio 2006 [pdf]

2626_14_mediumCosa lega la morte della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, avvenuta a Mogadiscio il 20 marzo 1994, con le decine di “navi a perdere” affondate nel Mediterraneo con il loro carico di pericolosi rifiuti? E qual è il ruolo del faccendiere Giorgio Comerio? Qualcuno questa indagine ha tentato di svolgerla, sollevando per un attimo il coperchio. Ma la verità, come spesso capita in questo paese, si è insabbiata allo stesso modo come la mattina del 14 dicembre 1990 si è arenata sulla spiaggia di Formiciche di Amantea la motonave Rosso della Ignazio Messina di Genova. Quella mattina, lungo le coste cosentine, il mare è mosso, c’è una tempesta in corso: mare forza otto. La Rosso dieci giorni prima salpa da La Spezia destinazione Napoli e poi Malta da dove riparte il 13 per far ritorno in Liguria. A bordo ci sono 16 membri dell’equipaggio, nella stiva: 9 container con tabacco e liofilizzati e altri 25 vuoti. Il comandante lancia via radio il mayday cinque minuti prima delle 8, è a circa 15 miglia dalla costa. Alle 10 un elicottero mette in salvo l’equipaggio. La nave è ormai ingovernabile, ha il timone bloccato e imbarcando acqua naviga fino alla spiaggia dove si arena intorno alle 14. L’inchiesta della capitaneria di porto di Vibo Valentia concluderà che la motonave si è arenata «a causa di uno sbandamento dovuto a una infiltrazione nella stiva poppiera e al successivo blocco dei motori». Cominciano le indagini e le stranezze, fin dalle prime battute, non mancano. Attorno a quella motonave, che rimarrà “spiaggiata” oltre sei mesi, ci sono insoliti movimenti: in un rapporto della capitaneria si fa riferimento, tra l’altro, alla presenza a Formiciche di agenti segreti e faccendieri del luogo. Durante le ispezioni, anche subacquee, non emergono falle però un filmato amatoriale mostrerà la presenza di una strana apertura sulla fiancata sinistra. Da qui l’ipotesi che dietro l’allagamento della stiva ci sia un tentativo doloso di affondare la motonave. Un passo indietro: nel 1988, per conto del governo italiano, la Jolly Rosso, così si chiamava allora, riporta dal Libano novemila fusti di rifiuti tossici-nocivi illegalmente esportati a Beirut da aziende italiane. Rimane in disarmo nel porto di La Spezia per due anni poi cambia nome. Il tentativo di affondarla, finito male sulle spiagge consentine, è una messinscena? Oppure è proprio lì che deve finire il suo misterioso carico? Quelle coste, è certo, in quel periodo, sono teatro di continui seppellimenti. Lì vicino ci sono delle discariche e le indagini si concentrano in particolare su alcuni scavi. Testimoni affermano che due mesi dopo l’arenamento della Rosso alcuni camion di notte hanno trasportato rifiuti da Formiciche fino nell’entroterra: in località Grassulio e Foresta di Serra d’Aiello, e lì li avrebbero sotterrati. Le analisi accerteranno in quei terreni alte concentrazioni di granulato di marmo e metalli pesanti sotto forma di fanghi industriali, mentre altri materiali sconosciuti sono ancora sul fondale di Formiciche. Dopo una prima archiviazione, l’inchiesta finisce alla Procura di Reggio Calabria nelle mani del pm Francesco Neri e del capitano di fregata Natale De Grazia: sono i primi a fare sul serio. L’indagine si allarga ed entra in scena il faccendiere Giorgio Comerio. Ma, fatto assai più importante, la Rosso entra nell’elenco delle navi sospette, come la Rigel affondata in circostanze poco chiare nel 1987 a largo di Capo Spartivento, forse con un carico di materiali radioattivi. L’ingegnere Giorgio Comerio nasce nel 1945 a Busto Arsizio, vive a Lugano, nel 1993 fonda una holding denominata Odm, Oceanic disposal management Inc., registrata alle Isole Vergini britanniche con sede in Svizzera. Ufficialmente l’Odm è frutto di un progetto della Comunità europea messo a punto per smaltire scorie nucleari, ma le attività dell’ingegner da Busto Arsizio sono sospettate di coprire il traffico internazionale di rifiuti. Il nome di Comerio, oltre a intrecciarsi con la vicenda Rosso e con la morte di Ilaria Alpi, è legato all’affondamento nel Mediterraneo di oltre quaranta navi cariche di veleni. Lui, tuttavia, si ritiene vittima di una montatura ambientalista: di Greenpeace che, nel 1995, denuncia il suo progetto di seppellire scorie nucleari in Sud Africa. L’ingegnere faccendiere si guadagna ben presto l’appellativo di “affossa-scorie”. È sua, infatti, l’idea di “sparare” a circa 80 metri al di sotto dei fondali marini, siluri, lunghi fino a 25 metri da 200 tonnellate ciascuno, riempiti di scorie radioattive. Per questo l’ingegnere si ritrova indagato per smaltimento illegale di rifiuti nucleari tossico-nocivi. Tutto comincia quando a un controllo doganale a Chiasso, ai confini con la Svizzera, la guardia di finanza ferma un socio di Comerio, Elio Ripamonti, che ha con se i progetti dei penetratori che l’ingegnere sta ideando. Ne vuole costruire 35mila e ha già individuato, contattando una cinquantina di paesi, tra questi Capo Verde, Zaire, Congo, Sierra Leone, Zambia e Somalia, 80 siti di inabissamento e 12 aree ottimali dove sotterrare rifiuti. Il passo è breve. Quei penetratori, i rapporti tra Comerio e strani personaggi portano gli inquirenti della Procura di Reggio Calabria a delineare inquietanti scenari. In più Comerio, scrive la guardia di finanza in un rapporto del 1998, è interessato, per conto di un ente di Stato iraniano, all’acquisto della Jolly Rosso, a bordo della quale verranno rinvenuti documenti e mappe riconducibili alle attività dello stesso faccendiere. Tuttavia la trattativa d’acquisto con la Ignazio Messina non verrà mai conclusa. Il Parlamento comincia a occuparsi di lui, in particolare la commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Si indaga anche sui traffici di armi tra paesi esteri, sulla Somalia e sui rapporti tra Comerio e Ali Mahdi, uno dei signori della guerra somala. Chi è veramente Comerio? Il Sismi, il servizio segreto militare, lo considera un truffatore, un millantatore, ma intanto si parla anche dei suoi contatti con i servizi argentini e di una partita di telemine per affondare tre incrociatori della marina britannica alle Falkland. È proprio nel corso di una perquisizione in casa di Comerio, a Garlasco, siamo nel 1995, viene fuori il certificato di morte di Ilaria Alpi - gli inquirenti troveranno anche altri documenti riguardanti la Jolly Rosso, e un’agenda del 1987 dove c’è un appunto “lost the ship” (la nave è persa) che riguarda proprio la Rigel -. Quel certificato, lo ha detto di recente lo stesso pm Neri di fronte alla commissione parlamentare che indaga sulla morte di Ilaria Alpi, è dentro una cartella gialla con la scritta “Somalia”. Il certificato, emesso forse dal Comune di Roma, viene sequestrato e acquisito agli atti dell’inchiesta di Reggio Calabria. La commissione, seguendo le indicazione del pm Neri, andrà a Reggio Calabria a cercarlo ma dentro quei fascicoli non c’è più. «Non è mai esistito - dirà durante un’audizione nel luglio scorso lo stesso presidente della commissione, Carlo Taormina - né è stato mai trasmesso ad alcuna altra autorità». Che fine ha fatto il certificato di morte trovato nello studio di Comerio? Torniamo alla motonave Rosso. Il sospetto che trasportasse rifiuti tossici e radioattivi è sempre più forte. Il procuratore Neri va avanti nella sua inchiesta, ma avviene qualcosa che determinerà inevitabilmente le conclusioni. Il suo pool è a un passo dalla verità quando, in circostanze ancora poco chiare, muore il capitano Natale De Grazia. È un onesto inquirente, un ufficiale di marina, che tenta di fare il proprio dovere. De Grazia è scrupoloso e con determinazione indaga per mesi: ha il delicato compito di riepilogare gli affondamenti delle navi nei mari Tirreno e Ionio. Deve ricostruire le rotte, localizzare i relitti e dare un nome a ognuna di quelle navi. Per fare questo gira in lungo e in largo il Mediterraneo. Va quasi fino in fondo il coraggioso capitano e scopre le rotte dei rifiuti che passano per La Spezia e per la Calabria. L’ufficiale si avvicina troppo alla verità. Il 13 dicembre del 1995 è in auto, con i suoi colleghi, sta andando a Massa Marittima e La Spezia. De Grazia ha un appuntamento molto importante: deve verificare alcuni registri nautici e sequestrare i piani di affondamento di 180 navi partite da Massa. A La Spezia deve interrogare l’equipaggio della motonave Rosso. Non ci riuscirà. Morirà all’età di 39 anni durante una sosta, a Nocera Inferiore, stroncato da un arresto cardiocircolatorio. Una morte sospetta, che farà arrestare l’intera attività investigativa della Procura di Reggio Calabria. A Massa Marittima, gli inquirenti ci torneranno dopo la sua morte, ma la capitaneria nel frattempo si è allagata e quei documenti non si trovano più. Il 14 novembre 2000 il Tribunale di Reggio Calabria archivia definitivamente l’inchiesta sul caso Jolly Rosso. La verità non è ancora venuta fuori. Passano tre anni. A ricominciare da capo è chiamata, per competenza territoriale, la Procura di Paola con il sostituto Francesco Greco. Ci sono nuove prove, ci sono dei testimoni, la presenza in mare, vicino alla Rosso, di un’altra motonave gemella, la Jolly Giallo, che avrebbe avuto un ruolo. Anche questa volta c’è la volontà di andare fino in fondo, mancano però fondi e uomini per indagare e il rischio prescrizione incombe su questa difficile inchiesta. La partita si allarga ed è ancora aperta.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 23 dicembre 2005 [pdf]