Mentre a Palermo, con un processo che si aprirà il prossimo 27 maggio, si cerca la verità sulla presunta trattativa tra lo Stato e la Mafia, a Caltanissetta si è appena avviato un altro dibattimento che dovrà riscrivere, di nuovo, la storia della strage di via D’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i suoi cinque uomini di scorta. La prima udienza c’è stata il 22 marzo e sul banco degli imputati, dinanzi alla presentati i boss Salvino Madonia e Vittorio Tutino e i tre falsi pentiti, Vincenzo Scarantino, Calogero Pulci e Francesco Andriotta, autori del clamoroso depistaggio che proprio per la strage del 19 luglio 1992 mandò all’ergastolo sette innocenti. Le indagini, avviate nel luglio del 2008 dai pm della Dda di Caltanissetta, guidati dal procuratore capo Sergio Lari, hanno permesso di accertare che le “verità” su via D’Amelio, passate nell’arco di 13 anni al vaglio di ben tre processi, tutti definiti con sentenze passate in giudicato, sono state viziate dalle false dichiarazioni rese da Scarantino, Pulci, Andriotta e Candura. «Le sentenze emesse a conclusione di quei processi - scrivevano i pm di Caltanissetta chiedendo l’arresto dei nuovi indagati, oggi imputati -, pur avendo accertato la responsabilità di numerosi associati a “cosa nostra “ in qualità di mandanti ed esecutori della strage di Via D’Amelio ed inflitto numerosi ergastoli, avevano ricostruito un complesso mosaico descrittivo di quel tragico avvenimento che presentava diverse tessere mancanti». ...continua a leggere "Nuove verità su via D’Amelio"
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All’ombra della trattativa
L'anno delle stragi, del delitto Lima (12 marzo), di Capaci (23 maggio) e via D’Amelio (19 luglio). Anno di grande fermento politico: dalle dimissioni (28 aprile) del «picconatore» Francesco Cossiga, che lascia il Quirinale prima della scadenza del suo settennato aprendo la strada all’ascesa al Colle di Oscar Luigi Scalfaro, fino alle elezioni politiche. Sono passati vent’anni da quel maledetto 1992: si cercano ancora verità e risposte. Sull’escalation di una sanguinaria stagione delle stragi che, dalla Sicilia, allungherà la sua scia di morte sul “continente”. Dalle bombe in via dei Georgofili a Firenze (nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993) a quelle contro le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma e in via Palestro a Milano (27 luglio). E’ lo scenario nel quale, secondo i magistrati della Procura di Palermo, l’aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, che hanno firmato l’avviso di chiusura delle indagini, si dispiega e va in scena la trattativa Stato-mafia al centro della loro inchiesta.
IL DELITTO LIMA: L’INIZIO
Dai verbali d’interrogatorio dei dodici indagati e delle persone sentite come testimoni, i magistrati di Palermo cercano di fare luce sulla consecutio temporum che si instaura tra i fatti di sangue firmati dalla mafia e l’evoluzione del quadro politico nazionale di quegli anni. In particolare, sulle ripercussioni del delitto Lima. «L’uccisione del parlamentare non è l’inizio della trattativa ma è un omicidio di rottura dei rapporti con la classe politica – chiarisce il procuratore aggiunto Antonio Ingroia in una recente intervista a Libero –. L’aggiustamento del maxiprocesso era fallito e la mafia voleva dare una sanzione». ...continua a leggere "All’ombra della trattativa"
Pizzini segreti
Il boss di Cosa Nostra Salvatore Lo Piccolo aveva in mente di eliminare due “infami” e i loro nomi, insieme ai suoi sospetti, li aveva già affidati ad un pizzino. Così la storia di due rapinatori, apparentemente semplici manovali della malavita siciliana, finisce per intrecciarsi con le sorti dell’erede di Bernardo Provenzano arrestato dalla polizia, insieme a suo figlio Sandro, il 5 novembre 2007, dopo ventiquattro anni di latitanza.
I due “infami”, fino a quel momento, non erano poi così noti se non fosse per quella rapina ad una villa compiuta nell’agosto del 2002, sempre a Palermo, nel complesso di Città Giardino. Lo Piccolo, i due fratelli, li vuole morti perché – così scrive in un pizzino – sono in contatto con i servizi segreti di Roma e Palermo.
La storia di Giuseppe e Salvatore Di Lorenzo, così si chiamano i rapinatori, va raccontata proprio da quell’anno, quando smarriscono un cellulare mentre stanno svaligiando la villa della signora D.D.M. A tradirli è proprio questa imperdonabile dimenticanza che lì porterà, dopo mesi di indagini, dietro le sbarre. Da quel cellulare, un Nokia 8210, e in particolare dalla memoria della sim 328/0968568 intestata al pregiudicato Umberto Costa, ma di fatto in uso a Giuseppe Di Lorenzo, si mette piede in un altro mondo.
Lo dice il consulente della Procura di Palermo, Gioacchino Genchi, incaricato dal pubblico ministero Maurizio Agnello, di scovare prove e indizi in quella e in altre sim sequestrate ai Di Lorenzo.
Tra quei numeri c’è qualcosa che va ben oltre quella rapina, in particolare nel traffico della sim 329/2961185, utilizzata da Salvatore Di Lorenzo ma intestata alla suocera.
Genchi, che di mafia e cellulari se ne intende, comprende per primo che i Di Lorenzo non sono solo dei semplici rapinatori. Da quei cellulari e dallo sviluppo dei tabulati delle varie utenze, che il perito definisce in alcuni casi anche “coperte”, vengono estrapolati decine di contatti telefonici con utenze, sia mobili che fisse, dei Carabinieri, della Polizia e di uffici operativi di Roma del Sisde (oggi Aisi, Agenzia informazioni e sicurezza interna).
Addirittura nelle fasi preparatorie ed esecutive della rapina e anche successivamente allo smarrimento del cellulare nella villa, il telefono di Giuseppe Di Lorenzo ha contatti con un sottufficiale dell’Arma, Matteo Di Giovanni, nome in codice Amedeo, in servizio a Palermo. Ma in quei tabulati, oltre agli intensi ed inquietanti rapporti telefonici dei Di Lorenzo con appartenenti alle forze dell’ordine e ai Servizi, c’è anche traccia – così svela Genchi nella sua poderosa relazione – di rapporti con pericolosi esponenti della criminalità organizzata delle cosche del mandamento di San Lorenzo e di Carini. Il consulente fa riferimento, in particolare, ai contatti intercorsi tra i Di Lorenzo e un altro mafioso, nipote di Salvatore Lo Piccolo che in quel momento, nel 2002, compare ancora tra i trenta maggiori ricercati d’Italia.
Concludendo la sua relazione Genchi riassumerà così il lavoro di analisi svolto spulciando tra gli oltre 440mila record di traffico telefonico: “Volendo sintetizzare lo spaccato che emerge dall’analisi dei dati possiamo dire che - nella più bonaria considerazione - appare una possibile sottovalutazione della caratura criminale dei due fratelli. I permanenti rapporti mantenuti con apparati dei Servizi, dei Carabinieri e della Polizia (nelle più disparate articolazioni), - prosegue l’esperto - hanno verosimilmente obnubilato le contestuali attività illecite dei fratelli Di Lorenzo ed il loro organico inserimento in un più elevato contesto criminale”.
Rapporti talmente stretti, a quanto pare, da permettere a Giuseppe Di Lorenzo di sfuggire ad un ordine di cattura che era stato emesso a suo carico, da circa quaranta giorni, dal tribunale di Velletri e che stranamente i carabinieri di Torretta avevano dimenticano in un cassetto. Una leggerezza che permetterà a Di Lorenzo di compiere quella rapina, proprio nei giorni in cui doveva essere già dietro le sbarre. Dal suo tabulato si evince che lo stesso si sentiva costantemente al telefono, anche nelle stesse ore dell’assalto, con i militari che avevano dimenticato di eseguire il suo arresto.
Il cerchio è chiuso. La signora D.D.M., che in casa ha una colluttazione con un rapinatore, riconosce, attraverso una foto mostrata dagli inquirenti, Salvatore Di Lorenzo, ma è solo un ulteriore conferma. I due fratelli, insieme ad altri quattro complici, finiscono in manette mentre la parte d’inchiesta che riguarda i contatti “istituzionali” è ancora top secret.
Ma chi sono veramente Giuseppe e Salvatore Di Lorenzo? Sono due “infami”? Come scrive Lo Piccolo. Oppure sono due confidenti del Sisde? Non sarebbe la prima volta, del resto i Servizi possono intrattenere rapporti, ovviamente a tutela della sicurezza democratica, con criminali e malavitosi.
Inquietanti interrogativi che riportano alla mente, tuttavia, circostanze che videro coinvolto lo stesso servizio segreto civile in torbide vicende su cui tuttora la magistratura siciliana sta tentando di fare luce. Come l’indagine della procura di Caltanissetta che, riprendendo una pista accantonata, indaga, a distanza di sedici anni, sul probabile coinvolgimento del Sisde nella strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta. Sempre grazie alle indagini del consulente Genchi, infatti, si accertò la presenza di una sede coperta del Sisde sul Monte Pellegrino, che sovrasta Palermo e via d’Amelio, all’interno del Castello Utveggio che ospita il Cerisdi, un centro di ricerche e studi manageriali. La circostanza venne fuori dall’analisi del tabulato del numero 0337/962596, intestato al boss Gaetano Scotto, che chiamò un’utenza fissa del Sisde installata proprio in quel castello. Suo fratello, Pietro Scotto, per conto della società Sielte, compì lavori di manutenzione sull’impianto telefonico della palazzina di via D’Amelio. Lavori necessari, si scoprì successivamente, per intercettare abusivamente la linea telefonica della madre del giudice Borsellino e quindi ottenere la conferma del suo arrivo nel pomeriggio del 19 luglio 1992. Dal castello Utveggio il Sisde scompare subito dopo l’inizio delle indagini e poco altro si sa.
Quella stagione, poi, fu segnata anche da un’altra discussa vicenda giudiziaria, scaturita in una condanna definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, che vide coinvolto il numero tre del Sisde, Bruno Contrada.
Sono più recenti, ma allo stesso modo inquietanti, infine, i riscontri sulle utenze risultate in uso al Governatore Salvatore Cuffaro, condannato in primo grado a cinque anni di reclusione per favoreggiamento e rivelazione di notizie riservate, nell’ambito dell’inchiesta sulle talpe alla Dda di Palermo. Una di quelle venti sim utilizzate dal presidente della Regione Sicilia, tra il 2001 e il 2002, ricevette 54 chiamate dall’ufficio del Sisde di via Notarbartolo a Palermo.
di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 25 gennaio 2008 [pdf]