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Chiamatela dietrologia, oppure antiamericanismo. Ma resta un dato di fatto: anche in questa brutta storia i nostri fedeli alleati americani ci sono entrati con le mani e con i piedi. È stata colpa loro? Chi può dirlo. Ma di certo, quella sera, mentre i 140 tra passeggeri e membri dell’equipaggio del Moby Prince andavano a morire contro quella petroliera, gli americani nel porto e alla rada di Livorno c’erano eccome. Così la tragedia di quel traghetto è diventata, nel tempo, la Ustica del mare. Troppe coincidenze. Troppi sospetti. Troppe presenze anomale in quel tratto di mare ingolfato come quel pezzo di cielo dove il 27 giugno 1980 si trovò, in altrettanto casuale compagnia, il Dc9 della compagnia Itavia. In quell’occasione le vittime furono 81, ovvero 82 con la verità finita per sempre, insieme a gran parte dei passeggeri di quel volo, in fondo al mare. Due storie diverse, due tragedie distanti tra loro ma unite dallo stesso pauroso sospetto.
A tornare indietro con la memoria, di pretesti, volendo, se ne trovano anche altri. Dall’arrivo delle spie americane in Sicilia, subito dopo il secondo conflitto mondiale, la cui attività, secondo molti, fu fortemente legata a quella della mafia, alla Strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947), fino all’uccisione in Iraq dell’agente segreto Nicola Calipari (4 marzo 2005), passando per la strage della funivia del Cermis (3 febbraio 1998). I misteri, quelli che tutti chiamano misteri d’Italia, in questo Paese hanno quasi sempre un inquietante risvolto a stelle e strisce, e non è sempre colpa della dietrologia. Gli americani, secondo i complottisti, mettono lo zampino dappertutto, e quindi se là, in quel mare, la sera del rogo del Moby Prince, c’erano anche loro, è accaduto sicuramente qualcosa che nessuno deve sapere. Meglio attribuire tutto alla nebbia, meglio ancora se la colpa è del traghetto o dell’aereo, di un impianto antincendio che non si azionò o della strutture che cedettero.
In queste due storie, poi, ci sono di mezzo i radar che forse hanno visto ma non parlano, come quelli, tali e quali, di Ustica. C’è di mezzo la guerra, quella del Golfo che è appena finita, come nella vicenda Calipari. Ci sono gli omertosi silenzi, quelli delle autorità americane, come per il Cermis. ...continua a leggere "Moby Prince 20 anni dopo"

ADAMO BOVE«Un pensiero e una preghiera per colui che da un anno non è più con noi! Un sms perché non si dimentichi. Fatelo girare grazie». È un sms a ricordare ai dipendenti della sede romana della Telecom di via di Torre Rossa che è trascorso un anno da quando il loro collega, Adamo Bove, è precipitato da un viadotto della tangenziale di Napoli. Un sms inviato da un ignoto e firmato Sec Ti, Security Telecom Italia, che ha fatto il giro dei cellulari aziendali e che ha riportato la memoria a quel venerdì 21 luglio di un anno fa quando il corpo del manager della Security Governance fu rinvenuto in fondo a un cavalcavia al Vomero. Un volo di una trentina di metri, poi lo schianto, il silenzio, che lasciano tanti, troppi dubbi sulla sua morte. Quarantadue anni, laureato in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, commissario capo della polizia fino al 1998, con un passato alla Dia ricco di successi per la cattura di pericolosi latitanti del calibro di Francesco “Sandokan” Schiavone e Mario Fabbrocino. Adamo Bove quel 21 luglio, dopo aver posteggiato a lato della rampa di via Cilea la Mini di sua moglie, Wanda Acampa, oncologa al policlinico di Napoli, si sarebbe gettato nel vuoto schiantandosi su una carreggiata della tangenziale. Era solo, lo afferma un testimone, un motociclista che si trovava alla barriera della tangenziale e che ha assistito alla terribile sequenza. Un uomo che si sporge e un attimo dopo precipita. L’esperto in sicurezza aziendale lascia l’auto accesa con le quattro frecce che lampeggiano, all’interno nessuna lettera d’addio, il suo cellulare registra una sola telefonata in entrata fatta da un collega circa dieci minuti prima dello schianto. Sembra la cronaca di una decisione presa a freddo, di un suicidio premeditato da chissà quanto tempo. Non è così. La storia non è questa. Adamo Bove non aveva alcun motivo per togliersi la vita. A non crederci è lo stesso magistrato chiamato a occuparsi del caso, il pm Giancarlo Novelli della procura di Napoli, che apre un fascicolo a carico di ignoti con l’ipotesi di istigazione al suicidio. Non ci crede nessuno anche tra i familiari: la moglie, i genitori, il fratello gemello Guglielmo che in Telecom dirige l’ufficio legale. Un anno dopo la loro rabbia si sfoga sulle pagine di Repubblica, in un annuncio a pagamento: «Sappiamo che prima di morire Adamo ha conosciuto suo malgrado la vergogna. La peggiore cui può essere condannato un essere umano. Quella che subisce chi non ha commesso peccato. Adamo ha conosciuto la vergogna per il vociare infamante che lo ha circondato». Per raccontare la storia di quest’uomo è necessario fare un passo indietro e sottolineare alcune stranezze, almeno tre, che legano con un filo rosso gli ultimi mesi di vita del manager ad altrettante vicende che sono al centro dell’attenzione nazionale. È certo, infatti, che Bove si sia occupato, collaborando attivamente con gli inquirenti, di scovare i cellulari utilizzati dagli agenti della Cia (26 quelli identificati) e dai colleghi italiani del Sismi per portare a termine il sequestro dell’imam egiziano Abu Omar, compiuto il 17 dicembre 2003 a Milano. A dirlo sono gli stessi magistrati milanesi che indagano sul sequestro insieme alla Digos: Bove diede un contributo fondamentale indicando quali fossero i cellulari da intercettare in condizioni di estrema segretezza, trattandosi di utenze in uso ad agenti segreti. Almeno quattro di queste utenze, si saprà poi, hanno certamente a che fare con il sequestro: tre sim risulteranno in uso al Sismi e una al gruppo Pirelli/Telecom, a Tiziano Casali, il capo della sicurezza personale dell’allora presidente, Marco Tronchetti Provera. L’indagine, oltre a travolgere i vertici del servizio segreto militare con l’arresto del numero due, Marco Mancini, mina Telecom, i suoi vertici aziendali e la già assai discussa Security. Bove si ritrova in trincea, turbato, stretto in una morsa: da un lato sta aiutando la magistratura a far luce su una vicenda complicata con pesanti implicazioni internazionali, dall’altro sa che non si può fidare di nessuno dentro la sua azienda, essendo evidenti i legami di alcuni suoi colleghi, il capo della sicurezza Giuliano Tavaroli per primo, con il Sismi. Ma Bove ha fatto il suo dovere almeno in altre due occasioni: aiuta la polizia anche nelle indagini legate al cosiddetto Laziogate, l’inchiesta scattata dopo la scoperta di un caso di spionaggio ai danni dei candidati alla presidenza della Regione Lazio, Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini, nel tentativo di favorire Francesco Storace. Abu Omar, Laziogate, l’attività illecita di dossieraggio avviata dalla Security Telecom/Pirelli: il quadro è quasi completo. Bove intuisce, per primo, che il marcio è proprio dentro Telecom, ma è troppo tardi. Il Garante della privacy contesta alla compagnia l’esistenza di un sistema informatico fuori dagli standard, in grado di spiare i tabulati telefonici di utenze fisse e mobili senza lasciare traccia. Il sistema si chiama Radar, è a Padova: è la “porta senza firewall” lasciata appositamente aperta e da cui è uscito di tutto. Radar, secondo gli inquirenti, è l’applicativo, interrogabile dalla intranet fin dal 1999, di cui si sarebbe servito per anni anche il Sismi, grazie all’amicizia di Tavaroli con Mancini, per spiare migliaia di cittadini, imprenditori, politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo. La Telecom corre ai ripari: denuncia l’esistenza di un’immensa falla nei suoi sistemi e Bove contribuisce a segnalare ogni abuso, è il suo lavoro. Tavaroli - che finirà in manette con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali per l’acquisizione di informazioni coperte dalla privacy - esce di scena. Bove, verosimilmente, finisce nel mirino dell’Internal Auditing: il servizio ispettivo della compagnia telefonica getta ombre sulla sua figura, perché dal suo ufficio è possibile «operare con modalità anomale e non certificabili» sui sistemi informatici, su Radar. L’Audit che incastra Bove porta la firma del super esperto in sicurezza informatica Fabio Ghioni (che finirà poi in manette per l’attacco ai computer dell’ex Ad di Rcs, Vittorio Colao, e del giornalista Mucchetti). Siamo al paradosso, alla beffa: Bove passa da Telecom a Tim nel 2002, quando Radar è operativo già da tre anni e, quattro anni dopo, nel 2006, l’azienda gli sta contestando di aver coperto il suo illecito utilizzo. È il 10 giugno 2006, Bove è assediato, nervoso, amareggiato, si sente tradito, scomodo. Il Sole 24 ore anticipa i contenuti dell’inchiesta dell’Internal Auditing, fa il suo nome, il manager appare turbato ai suoi familiari. Prova vergogna, ma senza aver commesso peccato. Si accorge di essere pedinato. A Roma, vicino la sua abitazione in via Federico Cesi, mentre sta rientrando con la moglie nota un furgone bianco. Si ricorda che è lì da giorni, è aperto, fruga all’interno e scopre che è intestato a un autonoleggio. Stranezze. Anche a Napoli, racconta a suo padre, qualcuno lo segue con modalità anomale, quasi volesse farsi notare. Il 15 luglio, sei giorni prima della sua morte, Bove blocca in strada un misterioso personaggio che risponde con un what? alla domanda “Chi sei? Che vuoi?”. Ma c’è una certezza: Bove, contrariamente a quanto verrà diffuso, non è indagato da alcuna procura. Quel 21 luglio si congeda dalla moglie con un sereno «ci vediamo dopo», sono le 11.30 e la coppia è a Parco Margherita, dove ha acquistato casa e dove vuole trasferirsi. Bove, stranamente, per raggiungere la vecchia abitazione, in via Luigia Sanfelice al Vomero, cioè a circa cinque chilometri da Parco Margherita, sceglie il percorso più lungo: prende la tangenziale a Fuorigrotta e attraversa Napoli, poi esce a via Cilea. Qualcuno lo pedina? Alle 12.40, il cacciatore di latitanti, l’uomo che fino al quel momento sa di aver fatto fino in fondo il suo dovere, è giunto all’appuntamento con la morte. Per mania di persecuzione o per mano assassina?
Guglielmo Bove, il fratello di Adamo. «Non ci arrendiamo, vogliamo la verità e continueremo a seguire le indagini con la massima fiducia». Parla a left a nome di tutta la famiglia, Guglielmo. «Non abbiamo una spiegazione, Adamo aveva un terrore pazzesco del vuoto, soffriva di vertigini, una condizione incompatibile con la ricostruzione della sua morte. Era assediato da vivo e lo è ancora adesso, basta digitare il suo nome su Google per rendersi conto che tutti i personaggi coinvolti nello scandalo intercettazioni continuano ad accusare esclusivamente lui. Adottano tutti la stessa linea difensiva: nessuno accusa nessuno, né verso l’alto né verso il basso, perché il capro espiatorio è stato già individuato. Abbiamo massima fiducia nei magistrati che stanno indagando sulla morte di Adamo, a Napoli e a Milano, siamo consapevoli che è assai difficile provare l’istigazione al suicidio, tuttavia molto lavoro è stato fatto e ce n’è ancora altrettanto da fare».
Cristina Sivieri Tagliabue, giornalista, ex collega di Adamo Bove, per cinque anni responsabile editoriale Telecom. Il giorno della sua morte gli ha scritto una poesia sul blog criativity.com. Adamo l’aveva conosciuto in Tim: «Ci siamo divertiti – racconta la giornalista a left- sì, la parola giusta è divertiti. Era ironico. Una persona squisita, piacevole al contrario di altri dirigenti Tim. Con lui si parlava bene, al di fuori dei ruoli». Cristina lascia la Telecom nel 2005 ma continua a sentirsi con Bove: «Fino a quando sono iniziati a uscire i primi articoli sulla questione delle intercettazioni, da quel momento era diventato impossibile parlarci, avevamo entrambi paura di essere intercettati. Lo sentivo turbato, cambiato, temeva di dirmi cose troppo riservate. Sono tornata in Telecom il mese scorso, ho chiesto agli ex colleghi cosa pensassero di tutta questa vicenda. C’è molto scetticismo sull’ipotesi del suicidio, l’aria che si respira è pesante, uno strano silenzio».

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 3 agosto 2007 [pdf]

usticaTutto ruota attorno ad una sigla: Kilo-Alfa-Zero-Uno-Uno. È la chiave di volta che permette all’edificio di sostenersi. Nell’affaire Ustica scoprire qual è la chiave di volta significa scoprire l’elemento su cui convergono tutte le forze. Perché eliminandola l’edificio crolla, miseramente, e quello che fino a un secondo prima era la causa della salvezza,un secondo dopo diventa la causa della rovina. La verità, lo si è detto per anni, è nei tabulati dei radar - quelli che la storia ci ha lasciato - e tra i rottami di quel relitto, che ancora dimorano in un hangar della base di Pratica di Mare e che presto finiranno nel Museo della Memoria a Bologna. Dall’analisi dei dati radar, per esempio quelli del sito militare di Marsala, in Sicilia, emergono, da sempre, una serie di evidenze e di azioni coerenti. Gli esperti che li avevano studiati in precedenza avevano avuto una visione limitata, fra le 20.36 e le 21.02 (il disastro era avvenuto alle 20.59), mentre, grazie al supplemento di indagine radaristica che volle il giudice Rosario Priore, fu possibile avere i dati di tutto il nastro: dalle 11.15 del 27 giugno 1980 fino alle 4.15 del 28.Così,venticinque anni dopo quella tragedia, quando gran parte dell’opinione pubblica ha dimenticato Ustica e i suoi mille misteri, si può arrivare a scoprire un pezzetto di verità. Sì, dal 1980 al 2005. Tuttavia non è così facile. Bisogna far combaciare le tessere provenienti da due elementi assai diversi:un ammasso di lamiere, recuperate in fondo al mare profondo tre chilometri e mezzo, e una serie infinita di lettere e numeri. Lì, in quei tabulati, ci sono due strani oggetti che volano davanti alla Sardegna a venti chilometri di quota, che si spostano da est a ovest a velocità bassissima, meno di cento chilometri orari, o addirittura si fermano. Per anni, chi doveva rispondere ha sempre fornito la stessa spiegazione: sono entrambi palloni sonda. Il primo oggetto definito un pallone è quello che sui radar viene chiamato AJ450: quello che “nasce” venti minuti prima del disastro e che “muore” nello stesso momento. Lo definiscono così in un’inchiesta dell’Aeronautica militare sollecitata nell’89 dall’allora ministro della Difesa. Il secondo oggetto è KA011, è la nostra traccia Kilo-Alfa-Zero-Uno-Uno. KA011 appare sugli schermi radar tre ore dopo replicando, in tutto e per tutto, il primo oggetto: di AJ450 replica quota, direzione, posizione e velocità. Un altro tassello, poi, è nel “nastro dei misteri”, quello contenente le registrazioni delle telefonate in entrata e in una uscita da Marsala la sera del disastro. Nastro ascoltato per la prima volta solo nel marzo del ’90. Qui il sergente Salvatore Loi, parlando con un altro militare, identifica KA011 come un pallone sonda. È una balla. I palloni stratosferici per la ricerca scientifica, utilizzati anche dal Cnr, decollavano dalla Sicilia e venivano recuperati in Spagna o addirittura in Amazzonia. Non potevano volare verso est, verso il Medio Oriente. Ma non è tutto. Guardando bene sui tracciati e applicando un fattore di scala pari a “6”, AJ450 diventa la traccia radar di un aereo che intercetta il Dc9 proprio nel momento in cui viene colpito. AJ450 potrebbe essere perciò protagonista di un’operazione di guerra elettronica. Un aereo dotato di apparecchiature elettroniche in grado di ingannare il radar di Marsala, mostrando quota,velocità e posizione diverse da quelle vere, insomma travestendosi da pallone sonda. KA011 compie un’azione gemella: tre ore dopo replica la scena dell’aggressione. Quale stazione radar lo ha fatto e perché? Cos’è KA011? Una sonda? La traccia è stata fatta da Marsala? Non è possibile. Marsala ha il codice di identificazione “J”, mentre questo è “KA”. E i palloni non vanno a est, vanno ad ovest, e non possono stare fermi in cielo, e per diverse ore, come KA011. Durante l’inchiesta non si approfondisce e ciò che afferma il sergente Loi al telefono diventa una verità. Fu lo stesso sergente, a ottobre dell’89, nel corso di un interrogatorio, a fare la “rivelazione” sul volo libico su cui avrebbe dovuto trovarsi Gheddafi, circostanza confermata pubblicamente dallo stesso leader libico nel gennaio del ’90.Un’altra icona di questa inchiesta. Peccato che di quel volo, però, non si sia mai trovato il più microscopico indizio sui nastri radar. La sigla “KA”, lo dice la Nato, è l’identificatore della stazione radar di Torrejon, in Spagna, vicino Madrid. Torrejon è la sede del 401th Tactical Fighter Wing dell’US Air Force. Ora un possibile scenario: lì, a Torrejon, qualcuno, tre ore dopo il disastro, stava già lavorando per identificare il probabile colpevole, replicando l’operazione di inganno elettronico messa in atto da AJ450. A questo punto la chiave di volta. Applicando lo stesso fattore di scala “6” ad entrambe le tracce, sia sul piano orizzontale che sul piano verticale,entrambi diventano aerei che vanno ad intersecare la rotta del nostro Dc9 nel momento in cui il velivolo civile, con a bordo 81 innocenti, perde i contatti con il mondo. Solo che la prima (AJ450) lo fa realmente, mentre la seconda (KA011) è una replica fatta tre ore dopo dal radar di Torrejon e trasmessa a Marsala e di qui al comando centrale di Martina Franca. Se parlassimo di uno o più missili che vanno a colpire il Dc9, grazie a questa ricostruzione di rotte e di quote si può misurare l’angolo di salita e d’impatto. È il raccordo fra le lamiere contorte e le file di lettere e numeri. L’elemento su cui potrebbero convergere tutte le forze. A Marsala dovevano sapere benissimo che “KA” era l’identificatore di Torrejon: perché allora depistarono raccontando la balla del pallone? A marzo del ’90 c’era chi sapeva, l’indagine stava per essere affidata a Priore, la commissione Stragi stava lavorando. Ecco perché il “nastro dei misteri” non era stato ascoltato prima di allora, forse perché prima non c’era! La verità si può cercare analizzando i punti rimasti inesplorati, anche venticinque anni dopo, anche se questo vuol dire rimettere in discussione gran parte delle “verità” appese come quadri sul muro di gomma.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 24 giugno 2005 [pdf]