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Velletri (Roma), 12 settembre 1990, ore 17. L’estate non sembra ancora voler fare le valigie per lasciare il posto all’autunno che comincia timidamente a far arrossire le chiome degli alberi. Quattro uomini, che indugiano sotto il balcone del civico ventotto della Contrada Colle dei Marmi, sembrano voler rubare al giorno le ultime forze prima del tramonto fino a quando un rombo lontano desta la loro attenzione. Una giornata qualunque invece per l’uomo che si appresta a tornare a casa sulla sua Volkswagen bianca che sta per svoltare l’angolo. Nell’aria immobile rimangono solo i quattro uomini che si schierano pronti a imprimersi in maniera indelebile in quella giornata mai andata a dormire, rimasta nella memoria collettiva.
L’uomo scende dall’auto immerso nei suoi pensieri, forse la moglie, o il figlio Daniele, che a soli quattro anni riesce a sciogliere un iceberg con i suoi occhioni teneri, Erika, la maggiore, curiosa come chi, a sei anni, si appresta a scoprire il mondo. Ma chissà, poi, se ha realmente il tempo di pensare un uomo nell’istante che separa un'azione tanto comune da un’aggressione, nel momento in cui viene picchiato, incappucciato e narcotizzato da quattro uomini che decidono del suo destino.
Se fosse una fiction, se questa storia la dovessimo raccontare per la tv, la prima scena, quella di apertura, la scriveremmo esattamente così: Davide Cervia si trova d’un tratto al centro di una scena di paura improvvisa nella via tranquilla di una giornata qualunque. Le sue urla chiedono aiuto oltre le mura, la via, oltre il silenzio che avvolgerà tutto. Perché è plausibile pensare che nella realtà le cose siano andate proprio in questo modo. Perché se Davide Cervia fosse il protagonista di questa fiction sarebbe scomparso così. Questa è la ricostruzione di un’azione che assomiglia tanto a una extraordinary rendition, una consegna straordinaria, un sequestro di persona, come quelli compiuti dalla Cia in giro per il mondo nel nome della lotta al terrorismo. ...continua a leggere "Storie maledette. Il caso Cervia"

Cervia_DavideLo aspettavano sotto casa, erano pronti a tutto pur di rapirlo. Lo hanno spinto, poi picchiato e prima di farlo salire con la forza su un’auto lo hanno narcotizzato avvicinandogli un fazzoletto alla bocca. Davide Cervia è scomparso così, diciassette anni fa. È la ricostruzione più plausibile di un’azione che assomiglia tanto all’extraordinary rendition con cui la Cia ha sequestrato, nel 2003 a Milano, l’imam Abu Omar. Questa è la storia di un uomo sparito nel nulla, diventato “indispensabile” a chi trafficava in armamenti e sofisticate apparecchiature elettroniche per la difesa made in italy mentre le truppe di Saddam Hussein invadevano il Kuwait. Urlava, si dimenava, Davide Cervia ha tentato fino all’ultimo istante di richiamare l’attenzione di un suo vicino di casa, ma non ce l’ha fatta. Da quel mercoledì 12 settembre 1990 di lui non si sa più nulla. Siamo a Velletri, in provincia di Roma, all’altezza del civico 28 della Contrada Colle dei Marmi. Davide Cervia sta rientrando a casa, dove lo aspetta sua moglie, Marisa Gentile, insieme ai suoi due figli, un bimbo di 4 anni e una bambina di 6. Sono le cinque del pomeriggio. Un agricoltore, Mario Cavagnero, è il primo testimone oculare ad assistere alle fasi successive al sequestro. L’uomo ha un fondo vicino all'abitazione di Cervia e quel pomeriggio, mentre è intento ad annaffiare una siepe, come dirà agli inquirenti, sente le urla di Cervia. Lo sente pronunciare, per almeno tre volte, il suo nome: «Mario… Mario… Mario…». Tutto avviene mentre un’auto di colore chiaro percorre in direzione della via Appia Nuova il viale che porta a casa di Cervia. Cavagnero, oggi scomparso, racconta prima ai familiari di Cervia poi ai Carabinieri di avere avuto la sensazione che dentro quell’auto ci fosse proprio il suo vicino di cui ha riconosciuto la voce, alta e concitata. C’è un altro testimone: è un autista delle autolinee Acotral, Alfio Greco. Il conducente è alla guida del pullman sulla linea Torvajanica-Velletri ed è costretto a frenare bruscamente proprio nel punto dove la Contrada Colle dei Marmi si immette sulla Via Appia Nuova. Un’auto, una Wolkswagen Golf bianca, con alla guida un giovane dalla carnagione chiara e con i baffi, non gli dà la precedenza. Lui è costretto a lasciarlo passare. L’auto è seguita, a brevissima distanza, da un’altra Golf verde scuro con a bordo almeno altre tre persone. Sui sedili posteriori, dirà l’autista del pullman agli inquirenti, c’è seduto qualcuno che ha le spalle poggiate al vetro quasi a voler coprire qualcosa o qualcuno. Le due auto, superato l’incrocio, prima di scomparire nel nulla si immetteranno a forte velocità sull’Appia Nuova in direzione Genzano-Roma. Ma chi è Davide Cervia? Nato a Sanremo nel ’59, nel settembre 1978 si arruola come volontario in Marina dove rimane, prima di congedarsi rinunciando ai ruoli permanenti, fino a tutto l’83, anno in cui conosce la donna che di lì a poco diventerà sua moglie. Fino all’agosto 1980 Cervia frequenta un corso biennale, come tecnico elettronico, alla Scuola della Marina di Taranto. Nel settembre dello stesso anno è trasferito a La Spezia e imbarcato sulla nave officina Moc 1204 e successivamente partecipa, nelle stesse officine, all’allestimento della nave Maestrale. Le sue eccellenti capacità nel campo dell’elettronica gli permettono subito di distinguersi. Terminato con ottime valutazioni l’iter addestrativo, Cervia, con la qualifica di “addetto Elt/Ete/Ge”, viene impiegato nella manutenzione e nell’utilizzo di particolari apparecchiature radar di “intercettazione” e “inganno”. In parole povere il sottufficiale è un esperto di guerra elettronica. Frequenta anche alcune aziende specializzate nella progettazione di apparecchiature per scopi militari, in particolare la Elettronica Spa di Roma e la Sma di Firenze, e gli viene rilasciato anche un apposito nulla osta di sicurezza (Nos segreto-Nato). Era abilitato - scriverà lo Stato Maggiore della Marina nel ’91, fornendo più versioni del suo foglio matricolare nel corso delle indagini - all’uso di sottosistemi di guerra elettronica installati sulle fregate della Marina. Sono tutte apparecchiature il cui funzionamento risultava classificato “riservatissimo”. Cervia con il grado di sergente lascia la Marina nell’84. Ha un bel curriculum e alle spalle cinque anni di formazione. Negli anni Ottanta-Novanta, quando la discussa industria militare italiana vantava commesse da tutto il mondo, fa presto a trovare lavoro nel privato. Si fa assumere dalla Enertecnel Sud, una società che produce componenti elettronici ad Ariccia, un altro comune dell’hinterland romano a mezz’ora da Velletri dove Cervia nell’88, ormai sposato, si è trasferito. Il tecnico lavora e pensa alla sua famiglia a cui è molto attaccato, non ha nessun motivo per mettere in pratica insani gesti. Chi lo ha rapito può essere interessato solo alle sue capacità tecnico-militari acquisite in Marina e dentro quelle aziende della cosiddetta Tiburtina Valley. Chi lo ha rapito ha bisogno di lui per far funzionare qualcosa che lui conosce come le sue tasche: i radar. Marisa Gentile, la moglie che ancora oggi si batte nella ricerca della verità, si reca a denunciare la scomparsa del marito il giorno successivo e da allora attende di sapere perché glielo hanno portato via. Il coraggio, l’ostinazione di Marisa e della sua famiglia hanno permesso che si scrivesse, nero su bianco, che Davide Cervia fu vittima di un sequestro. Lo ha scritto l’allora sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Luciano Infelisi,chiedendo nel novembre del ’99 l’archiviazione «perché ignoti gli autori del reato» dell’unica indagine che sia riuscita ad arrivare a una conclusione pur non facendo piena luce sul caso. C’è voluta l’ostinazione di Marisa Gentile, del giornalista Gianluca Cicinelli, che sul caso ha scritto un libro e costituito insieme alla moglie di Cervia un Comitato per la verità, e dell’avvocato Nino Marazzita affinché la Procura generale avocasse a sé l’indagine avviata dalla Procura di Velletri che non riusciva ad esercitare l’azione penale «per carenza di organico». Eppure Marisa Gentile e Gianluca Cicinelli sono finiti sul banco degli imputati accusati - e poi assolti perché il fatto non costituisce reato – per i contenuti di quel libro pubblicato nel ’94 che ruppe il silenzio sul caso Cervia. Secondo il procuratore Luciano Infelisi, Cervia non aveva motivo di allontanarsi volontariamente dalla sua abitazione, né di togliersi la vita. Quel pomeriggio tornava a casa dove aveva dato appuntamento ad alcuni tecnici dell’Enel che dovevano eseguire dei lavori e per la mattina successiva aveva chiesto a un suo collega delle uova fresche per i bambini. Ci sono i due testimoni oculari le cui deposizioni sono risultate attendibili nel ricostruire quanto accadde quel giorno a Velletri, ma manca qualcosa. Manca la volontà di scavare. La storia di Davide Cervia, come tanti altri casi in cui lo Stato si è trovato a interrogare lo Stato, è scandita da inquinamenti, omissioni, depistaggi e colpevoli silenzi che non hanno permesso alla magistratura di raggiungere alcun obiettivo se non quello di lasciare aperto il caso. È inquietante come la Marina militare ha trattato il caso Cervia e come sia arrivata, in alcuni casi, anche a smentire se stessa nel comunicare agli inquirenti le reali mansioni del sottufficiale, quasi a voler nascondere le sue capacità. È inquietante l’inerzia incontrata dentro quei palazzi dove i familiari di Cervia hanno tentato di trovare delle risposte. Sono inquietanti i contenuti delle lettere anonime giunte in questi anni alla famiglia Cervia che in alcuni casi arrivano ad avvalorare la tesi secondo cui l’uomo sarebbe stato rapito da agenti segreti di una potenza straniera per sfruttarne la sua specializzazione. E poi, ancora, che il sottufficiale avrebbe perso la vita il 4 febbraio 1991 in un centro radar a nord di Bassora (Iraq) colpito da un missile. Poi lo segnalano, insieme ad altri esperti italiani, in una struttura dell’intelligence irachena a Zawra Park sulle rive del Tigri bombardata dagli americani nel luglio del ’93. Tre anni dopo le lettere anonime arrivano a segnalare che l’esperto sarebbe vivo e si troverebbe in una base sotterranea segreta dell’Iraq a 110 chilometri da Baghdad, ma l'Ambasciata irachena presso la Santa Sede smentirà subito che Cervia si trovi lì. Le cronache dei primi anni Novanta raccontano delle truppe di Saddam Hussein che invadono il Kuwait, di una prima Guerra nel Golfo, scoppiata appena un mese prima della scomparsa di Cervia, ma anche di traffici internazionali di armamenti e apparecchiature elettroniche destinate alla Difesa. Raccontano di importanti società italiane (Fincantieri, Oto Melara, Aeritalia, Selenia, Elettronica, Sma e Meteor) in commercio con il Medio Oriente e con il Nord Africa e di esperti italiani “noleggiati” alla Libia di Gheddafi e all’Iraq di Saddam per addestrare militari all’utilizzo di apparecchiature “made in Tiburtina Valley”. Ma le nostre apparecchiature, le stesse su cui Cervia si era fatto le ossa in Marina, come il sistema missilistico antinave Otomat-Teseo, finivano anche in Iran, Venezuela, Perù, Ecuador, Malesia e Nigeria. Oggi a diciassette anni dalla scomparsa di Cervia, la moglie Marisa non se la sente più di parlare, affida tutto a un malloppo di carte che raccontano anche che i nostri servizi, in particolare il Sismi, definirono “credibile” la tesi che Cervia fu rapito per interessi commerciali-militari legati alla sua competenza professionale. Ma la realtà è un’altra. Le indagini sono ferme al 5 aprile 2000 quando la gip Paola Astolfi del Tribunale di Velletri, ritenuti ignoti gli autori del sequestro, ha archiviato l’inchiesta della Procura generale di Roma.

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 1 giugno 2007 [pdf]

usticaTutto ruota attorno ad una sigla: Kilo-Alfa-Zero-Uno-Uno. È la chiave di volta che permette all’edificio di sostenersi. Nell’affaire Ustica scoprire qual è la chiave di volta significa scoprire l’elemento su cui convergono tutte le forze. Perché eliminandola l’edificio crolla, miseramente, e quello che fino a un secondo prima era la causa della salvezza,un secondo dopo diventa la causa della rovina. La verità, lo si è detto per anni, è nei tabulati dei radar - quelli che la storia ci ha lasciato - e tra i rottami di quel relitto, che ancora dimorano in un hangar della base di Pratica di Mare e che presto finiranno nel Museo della Memoria a Bologna. Dall’analisi dei dati radar, per esempio quelli del sito militare di Marsala, in Sicilia, emergono, da sempre, una serie di evidenze e di azioni coerenti. Gli esperti che li avevano studiati in precedenza avevano avuto una visione limitata, fra le 20.36 e le 21.02 (il disastro era avvenuto alle 20.59), mentre, grazie al supplemento di indagine radaristica che volle il giudice Rosario Priore, fu possibile avere i dati di tutto il nastro: dalle 11.15 del 27 giugno 1980 fino alle 4.15 del 28.Così,venticinque anni dopo quella tragedia, quando gran parte dell’opinione pubblica ha dimenticato Ustica e i suoi mille misteri, si può arrivare a scoprire un pezzetto di verità. Sì, dal 1980 al 2005. Tuttavia non è così facile. Bisogna far combaciare le tessere provenienti da due elementi assai diversi:un ammasso di lamiere, recuperate in fondo al mare profondo tre chilometri e mezzo, e una serie infinita di lettere e numeri. Lì, in quei tabulati, ci sono due strani oggetti che volano davanti alla Sardegna a venti chilometri di quota, che si spostano da est a ovest a velocità bassissima, meno di cento chilometri orari, o addirittura si fermano. Per anni, chi doveva rispondere ha sempre fornito la stessa spiegazione: sono entrambi palloni sonda. Il primo oggetto definito un pallone è quello che sui radar viene chiamato AJ450: quello che “nasce” venti minuti prima del disastro e che “muore” nello stesso momento. Lo definiscono così in un’inchiesta dell’Aeronautica militare sollecitata nell’89 dall’allora ministro della Difesa. Il secondo oggetto è KA011, è la nostra traccia Kilo-Alfa-Zero-Uno-Uno. KA011 appare sugli schermi radar tre ore dopo replicando, in tutto e per tutto, il primo oggetto: di AJ450 replica quota, direzione, posizione e velocità. Un altro tassello, poi, è nel “nastro dei misteri”, quello contenente le registrazioni delle telefonate in entrata e in una uscita da Marsala la sera del disastro. Nastro ascoltato per la prima volta solo nel marzo del ’90. Qui il sergente Salvatore Loi, parlando con un altro militare, identifica KA011 come un pallone sonda. È una balla. I palloni stratosferici per la ricerca scientifica, utilizzati anche dal Cnr, decollavano dalla Sicilia e venivano recuperati in Spagna o addirittura in Amazzonia. Non potevano volare verso est, verso il Medio Oriente. Ma non è tutto. Guardando bene sui tracciati e applicando un fattore di scala pari a “6”, AJ450 diventa la traccia radar di un aereo che intercetta il Dc9 proprio nel momento in cui viene colpito. AJ450 potrebbe essere perciò protagonista di un’operazione di guerra elettronica. Un aereo dotato di apparecchiature elettroniche in grado di ingannare il radar di Marsala, mostrando quota,velocità e posizione diverse da quelle vere, insomma travestendosi da pallone sonda. KA011 compie un’azione gemella: tre ore dopo replica la scena dell’aggressione. Quale stazione radar lo ha fatto e perché? Cos’è KA011? Una sonda? La traccia è stata fatta da Marsala? Non è possibile. Marsala ha il codice di identificazione “J”, mentre questo è “KA”. E i palloni non vanno a est, vanno ad ovest, e non possono stare fermi in cielo, e per diverse ore, come KA011. Durante l’inchiesta non si approfondisce e ciò che afferma il sergente Loi al telefono diventa una verità. Fu lo stesso sergente, a ottobre dell’89, nel corso di un interrogatorio, a fare la “rivelazione” sul volo libico su cui avrebbe dovuto trovarsi Gheddafi, circostanza confermata pubblicamente dallo stesso leader libico nel gennaio del ’90.Un’altra icona di questa inchiesta. Peccato che di quel volo, però, non si sia mai trovato il più microscopico indizio sui nastri radar. La sigla “KA”, lo dice la Nato, è l’identificatore della stazione radar di Torrejon, in Spagna, vicino Madrid. Torrejon è la sede del 401th Tactical Fighter Wing dell’US Air Force. Ora un possibile scenario: lì, a Torrejon, qualcuno, tre ore dopo il disastro, stava già lavorando per identificare il probabile colpevole, replicando l’operazione di inganno elettronico messa in atto da AJ450. A questo punto la chiave di volta. Applicando lo stesso fattore di scala “6” ad entrambe le tracce, sia sul piano orizzontale che sul piano verticale,entrambi diventano aerei che vanno ad intersecare la rotta del nostro Dc9 nel momento in cui il velivolo civile, con a bordo 81 innocenti, perde i contatti con il mondo. Solo che la prima (AJ450) lo fa realmente, mentre la seconda (KA011) è una replica fatta tre ore dopo dal radar di Torrejon e trasmessa a Marsala e di qui al comando centrale di Martina Franca. Se parlassimo di uno o più missili che vanno a colpire il Dc9, grazie a questa ricostruzione di rotte e di quote si può misurare l’angolo di salita e d’impatto. È il raccordo fra le lamiere contorte e le file di lettere e numeri. L’elemento su cui potrebbero convergere tutte le forze. A Marsala dovevano sapere benissimo che “KA” era l’identificatore di Torrejon: perché allora depistarono raccontando la balla del pallone? A marzo del ’90 c’era chi sapeva, l’indagine stava per essere affidata a Priore, la commissione Stragi stava lavorando. Ecco perché il “nastro dei misteri” non era stato ascoltato prima di allora, forse perché prima non c’era! La verità si può cercare analizzando i punti rimasti inesplorati, anche venticinque anni dopo, anche se questo vuol dire rimettere in discussione gran parte delle “verità” appese come quadri sul muro di gomma.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 24 giugno 2005 [pdf]