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Luciano PetriniQuando le umane debolezze diventano un alibi per non indagare a fondo, accade che un caso rimanga irrisolto. Diventa un mistero. Uno dei tanti gialli che ci hanno appassionato e indignato per un periodo che, poi, abbiamo messo da parte. Questa è la storia di un uomo “perbene”, di uno stimato tecnico informatico di 37 anni trovato il 9 maggio 1996 nella sua casa-ufficio con il cranio fracassato dai colpi di un portasciugamani in ferro. È la storia di un delitto irrisolto. Siamo a Roma, al quarto piano del civico 30 di via Giorgio Pallavicino, zona Villa Bonelli, al Portuense. L’uomo è Luciano Petrini, ingegnere elettronico, responsabile tecnico di una software house romana, la Microimage. Petrini è scapolo, riservato, estremamente elegante. Non è un tecnico qualunque. È bravo. Conosce i segreti dei computer. Progetta sofisticati software, in passato ha lavorato anche per il Dipartimento di informatica e sistemistica dell’Università La Sapienza, ed è consulente tecnico di numerose procure. Prima di raccontare le ultime ore di vita di Petrini, però, è necessario fare un passo indietro: all’8 gennaio dello stesso anno. L’ingegnere è a Caltanissetta a deporre in un processo molto importante, in qualità di consulente tecnico incaricato di compiere una perizia, è dinanzi alla Corte d’Assise: si tratta del processo di primo grado ai presunti mandanti ed esecutori della strage di Capaci. A Petrini nel luglio 1992, a poche settimane da quei tragici fatti, la procura nissena ha affidato un importante e delicato incarico: scoprire se i computer del giudice Giovanni Falcone sono stati manomessi e decifrare il contenuto delle memorie. Il tecnico romano, insieme a Gioacchino Genchi, un funzionario di polizia anche lui consulente informatico, tra i massimi esperti italiani in analisi dei traffici telefonici, porta a termine il suo lavoro in poco meno di sei mesi: i risultati fanno tremare i polsi. Tre anni dopo, quando comincia a parlare ai giudici, Petrini, è ascoltato da boss del calibro di Totò Riina e Giovanni Brusca, l’uomo che ha premuto il pulsante del congegno telecomandato che ha squarciato l’autostrada al passaggio delle auto blindate con a bordo Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta. Petrini e Genchi hanno analizzato duecento milioni di byte di dati, trentamila pagine di documenti, tre computer (un personal da tavolo e due notebook), due databank, una trentina di floppy disk e consegnato ai giudici una consulenza le cui conclusioni stanno in 47 volumi. I due esperti evidenziano numerosi “interventi” eseguiti certamente in epoca successiva alla strage: file personali editati da Falcone, come “orlando.bak”, aperti e salvati – ma non alterati nei contenuti - sette giorni dopo la strage di Capaci e in almeno altre tre occasioni, l’1, il 19 e il 26 giugno. Petrini quell’8 gennaio 1996, mentre siede davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, non sa che a molti chilometri di distanza, a Roma, qualcuno sta per aprire la porta di casa sua, senza forzare la serratura, e gli sta portando via un computer portatile, duecento cd di musica classica, la sua grande passione, una coppia di gemelli in oro e un sofisticato impianto hi-fi. Stranezze. Coincidenze. Non lo saprà fino al momento in cui infilerà lui stesso la chiave nella toppa rientrando a casa dalla missione in Sicilia. Esattamente quattro mesi dopo, il 9 maggio, un suo amico, il quarantenne Maurizio Scibona, farà lo stesso trovandosi di fronte a una scena straziante che non dimenticherà facilmente. Luciano Petrini è a terra, nella sua camera da letto dipinta di rosa pastello, indossa una canottiera e un paio di boxer. È ai piedi del letto, in una pozza di sangue, avvolto in un lenzuolo, con le gambe poggiate sul materasso, e la testa coperta da un mucchio di indumenti inzuppati di sangue. Vicino al corpo c’è una pesante piantana portasciugamani che, secondo quanto dirà il medico legale, sarebbe stata utilizzata per spaccargli la testa: un solo colpo vibrato tra la zona orbitale e lo zigomo sinistro. Gli effetti di tanta ferocia sono devastanti. Sono da poco passate le 17 quando Scibona, sconvolto, chiama il 113. Piombano nell’appartamento di via Pallavicino gli agenti del commissariato San Paolo, quelli della sezione omicidi della Squadra Mobile di Roma e, poco dopo, il sostituto procuratore Leonardo Frisani. Il trentasettenne è morto così. In casa non manca nulla, è tutto in ordine, anche questa volta la serratura non è stata forzata e i vicini non hanno sentito nulla. Il delitto è avvenuto al mattino, almeno otto ore prima del l’arrivo di Scibona, e probabilmente chi ha ucciso deve aver colto l’esperto informatico nel sonno. Scibona era il compagno di Petrini. Sì, era una coppia gay. Avevano passato insieme cinque anni, poi la crisi e una mezza separazione che, tuttavia, non aveva compromesso la loro amicizia. Scibona, infatti, aveva ancora le chiavi di casa. Questo racconterà agli inquirenti nel corso di un lungo e drammatico interrogatorio durato sette ore. Gli inquirenti scavano, forse non troppo, e la prima conclusione a portata di mano è già servita il 15 maggio. Interrogano per giorni familiari, colleghi e amici. Ripercorrono gli ultimi giorni di vita dell’esperto, i suoi spostamenti, le sue frequentazioni. Non servono neanche le parole delle due sorelle dell’ingegnere, Daniela e Antonella, a far cambiare idea alla procura: quello che è accaduto sembra loro assai strano, non li convince. Luciano era riservato, non parlava mai del suo lavoro né, tanto meno, della sua vita privata. Viveva la sua omosessualità con grande discrezione ed eleganza anche se in tanti conoscevano il suo segreto. E poi la memoria del suo telefonino rinvenuto vicino al cadavere: un mistero nel mistero. Dei 99 numeri memorizzati nella rubrica solo 60 sono visibili, gli altri risulteranno criptati, indecifrabili. Per gli inquirenti il caso è chiuso dopo poche settimane: è stato un portoghese, un gay, un ragazzo di vita, e non importa che sia sparito nel nulla. Come Pier Paolo Pasolini, Petrini ha rimorchiato chissà dove questo bel giovane dai capelli biondi fuggito dopo il delitto, forse, a bordo di una Fiat Tipo bianca. Tutto qui. Nessun mistero. Nessuna stranezza. Non serve a nulla neanche il fatto che nel curriculum di Petrini spunti un’altra consulenza “sensibile” prestata nel tentativo di fare luce su un altro delitto irrisolto, quello di via Carlo Poma. Petrini indagò anche sul computer su cui lavorava la giovane Simonetta Cesaroni uccisa, il 7 agosto 1990, con 29 coltellate. Gli ingredienti ci sono tutti, non manca neanche la pista legata ai soliti Servizi. Anche loro, gli 007, entrano dappertutto e chissà che non c’entrino anche in questo mistero. Ma la storia dell’ingegner Petrini, l’uomo con gli occhiali dalla montatura d’oro e una scia di profumo sempre dietro di sé, s’interrompe così: un altro giallo da consegnare agli appassionati del noir. La sua storia finisce senza dare risposte a dubbi e sospetti.

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 20 luglio 2007 [pdf]

Jolly2«Con i traffici di rifiuti e gli affondamenti delle navi non c’entriamo nulla». Sono in mare dal 1921 e non ci stanno proprio a farsi etichettare come trafficanti di scorie e affondanavi. La Ignazio Messina & C. Spa, una flotta di quindici navi che collegano i principali porti del Mediterraneo, è la società armatrice della Jolly Rosso. Dal quel 14 dicembre 1990, quando la loro motonave portacontainer si arenò nella spiaggia cosentina di Formiciche di Amantea, i vertici aziendali della compagnia respingono con forza ogni accusa. La procura di Paola - che seguendo le rivelazioni di un pentito della ‘ndrangheta nei giorni scorsi ha individuato sul fondo del basso Tirreno un altro misterioso relitto - punta il dito contro l’armatore genovese che avrebbe tentato di affondare la sua nave per smaltire illegalmente un carico di scorie. La linea difensiva della Ignazio Messina, tuttavia, è sempre la stessa da sedici anni: è scritta in un dossier di quasi quattrocento pagine redatto nel 2004. La verità, che prova a demolire pezzo per pezzo il teorema della procura, è tutta nella ricostruzione dei fatti: la nave, di ritorno da Malta per La Spezia con un carico di tabacco, nylon e prodotti per bevande, si arenò a causa di alcune falle create nello scafo da un semi-rimorchio, ospitato nella stiva, che ruppe gli ancoraggi e sbatté più volte contro la paratia di sinistra. Quindi nessun tentativo doloso di affondarla. Nessun carico di rifiuti o scorie radioattive da occultare in fondo al mare. Tutto ciò avvenne a causa delle pessime condizioni meteo (mare forza 8/9). Da quelle falle entrò acqua, erano circa le 7, il comandante avvertì un rumore proveniente dalla stiva, la nave sbandò, si inclinò e finì per spiaggiarsi lungo il litorale di Amantea. «La Messina - spiega ad Avvenimenti il suo amministratore delegato Andrea Gais - ha la coscienza pulita. L’immagine della nostra società è stata infangata, calunniata e massacrata per sedici anni da una campagna di stampa di cui evidentemente ci sfuggono le origini». Quella mattina nel mare di Calabria c’era anche un’altra nave della stessa compagnia: la Jolly Giallo in navigazione verso Tripoli. I magistrati sono arrivati ad ipotizzare un suo coinvolgimento: in sostanza questa seconda nave faceva da appoggio al piano di affondamento. «Nessun mistero. È la balla più grossa che abbiamo sentito finora - la secca replica di Gais -, la Giallo era stata dirottata in quella zona dalle autorità marittime, è stata l’ultima nave ad arrivare lì dopo l’Sos ed era obbligata ad avvicinarsi ed intervenire. Fu un ultimo tentativo di salvare nave e carico: la Giallo doveva agganciare la Rosso e trainarla al largo ma l’operazione di soccorso purtroppo non andò a buon fine». E quelle mappe, quei documenti trovati a bordo della Rosso con il marchio della Oceanic disposal management Inc., la holding del faccendiere, “affossascorie”, Giorgio Comerio? «Sulla nostra nave - aggiunge l’amministratore delegato della Ignazio Messina - , lo ribadiamo, non c’erano documenti della Odm. Quella società è nata nel 1993, tre anni dopo l’incidente della Rosso». Ma la Ignazio Messina deve difendersi anche dalle pesanti rivelazioni di un pentito: un ex boss della ‘ndrangheta, che in un memoriale consegnato all’Antimafia dice di essersi occupato, nell’ottobre del 1992 e su loro mandato, di affondare tre navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi proprio al largo della Calabria. «Nell’arco di un paio di settimane - scrisse il boss - abbiamo affondato tre navi indicate dalla società Messina. La Yvonne A, ci disse la Ignazio Messina, trasportava 150 bidoni di fanghi, la Cunski 120 bidoni di scorie radioattive e la Voriais Sporadais 75 bidoni di varie sostanze tossico-nocive. Ci informò anche che le imbarcazioni erano tutte al largo della costa calabrese in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza». E ora le novità. L’8 gennaio scorso i tecnici di una società, la Blue Tek, incaricata di effettuare le ricerche dalla procura di Paola hanno individuato proprio al largo di Cetraro, a circa quattro miglia dalla costa, una nave, lunga circa cento metri e larga almeno quindici, adagiata ad una profondità di circa quattrocento metri. Il relitto è danneggiato nella parte centrale e il sofisticato Side Scan Sonar utilizzato per scandagliare il fondo del Tirreno ha individuato, nel raggio di alcune centinaia di metri attorno al relitto, una misteriosa macchia scura. Più a nord di questo punto, a circa dieci miglia dalla costa di Belvedere, quasi in acque internazionali, gli esperti hanno riferito al magistrato Francesco Greco di aver individuato un altro corpo, definito “estraneo”, lungo circa centotrenta metri, che si trova a cinquecento metri di profondità. È la conferma che aspettavano gli inquirenti dopo le rivelazioni del boss? «Che un non meglio identificato pentito – controbatte Andrea Gais - abbia detto di aver avuto rapporti con noi lo smentiamo nella maniera più assoluta e categorica. Non sappiamo neanche chi è questo personaggio e questo fantomatico memoriale noi non l’abbiamo mai letto, ce l’ha L’espresso, noi no... Su quali prove si basa la nostra colpevolezza? La nostra compagnia ha più di ottantanni - prosegue – non accettiamo che un boss ci venga a dire che quelle navi le abbiamo fatte affondare noi. Non possiamo accettarlo. Questo boss mente, è stato foraggiato da qualcuno che vuole continuare a tirarci in ballo e non sappiamo per quale motivo». Tutte accuse da provare. Sarà necessario immergersi in mare e capire cosa c’è sotto. Come sarà necessario scavare nelle discariche nell’entroterra di Amantea, dove sono state trovate tracce di metalli pesanti e altre sostanze tossiche e dove secondo il pm Greco sarebbero stati smaltiti, cioè sotterrati illecitamente, i rifiuti trasportati dalla Rosso. Stando ai riscontri dei Lloyd’s di Londra e di Legambiente sono almeno venticinque le navi affondate dolosamente nel Tirreno e nel mar Ionio. «Nel maggio 1993 all’altezza del Canale di Sicilia - ricorda Enrico Fontana dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente - affondò certamente la Marco Polo. Come per la Koraline, affondata al largo di Ustica, in alcuni container ritrovati, fu riscontrata una radioattività da torio 234. Navi fantasma sono anche la Mikigan, affondata il 31 ottobre 1986 nel mar Tirreno calabrese, con il suo carico misterioso e la Rigel affondata il 21 settembre del 1987 al largo di Capo Spartivento. Le dinamiche del loro naufragio e di come si siano “lasciate andare” verso i fondali presentano impressionanti analogie». La Yvonne A, la Cunski e la Voriais Sporadais che fine hanno fatto? Sono lì, sul fondo del Tirreno? Secondo il Lloyd’s Marine Intelligence Unit, l’unità che svolge indagini sulle navi per conto dell’assicuratore marittimo londinese, la Yvonne A e la Cunski non risultano disperse: sono state demolite rispettivamente nel 2004 e nel 1991, mentre non è stata trovata alcuna nave che abbia mai avuto il nome Voriais Sporadais.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 3 febbraio 2006 [pdf]

2626_14_mediumCosa lega la morte della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, avvenuta a Mogadiscio il 20 marzo 1994, con le decine di “navi a perdere” affondate nel Mediterraneo con il loro carico di pericolosi rifiuti? E qual è il ruolo del faccendiere Giorgio Comerio? Qualcuno questa indagine ha tentato di svolgerla, sollevando per un attimo il coperchio. Ma la verità, come spesso capita in questo paese, si è insabbiata allo stesso modo come la mattina del 14 dicembre 1990 si è arenata sulla spiaggia di Formiciche di Amantea la motonave Rosso della Ignazio Messina di Genova. Quella mattina, lungo le coste cosentine, il mare è mosso, c’è una tempesta in corso: mare forza otto. La Rosso dieci giorni prima salpa da La Spezia destinazione Napoli e poi Malta da dove riparte il 13 per far ritorno in Liguria. A bordo ci sono 16 membri dell’equipaggio, nella stiva: 9 container con tabacco e liofilizzati e altri 25 vuoti. Il comandante lancia via radio il mayday cinque minuti prima delle 8, è a circa 15 miglia dalla costa. Alle 10 un elicottero mette in salvo l’equipaggio. La nave è ormai ingovernabile, ha il timone bloccato e imbarcando acqua naviga fino alla spiaggia dove si arena intorno alle 14. L’inchiesta della capitaneria di porto di Vibo Valentia concluderà che la motonave si è arenata «a causa di uno sbandamento dovuto a una infiltrazione nella stiva poppiera e al successivo blocco dei motori». Cominciano le indagini e le stranezze, fin dalle prime battute, non mancano. Attorno a quella motonave, che rimarrà “spiaggiata” oltre sei mesi, ci sono insoliti movimenti: in un rapporto della capitaneria si fa riferimento, tra l’altro, alla presenza a Formiciche di agenti segreti e faccendieri del luogo. Durante le ispezioni, anche subacquee, non emergono falle però un filmato amatoriale mostrerà la presenza di una strana apertura sulla fiancata sinistra. Da qui l’ipotesi che dietro l’allagamento della stiva ci sia un tentativo doloso di affondare la motonave. Un passo indietro: nel 1988, per conto del governo italiano, la Jolly Rosso, così si chiamava allora, riporta dal Libano novemila fusti di rifiuti tossici-nocivi illegalmente esportati a Beirut da aziende italiane. Rimane in disarmo nel porto di La Spezia per due anni poi cambia nome. Il tentativo di affondarla, finito male sulle spiagge consentine, è una messinscena? Oppure è proprio lì che deve finire il suo misterioso carico? Quelle coste, è certo, in quel periodo, sono teatro di continui seppellimenti. Lì vicino ci sono delle discariche e le indagini si concentrano in particolare su alcuni scavi. Testimoni affermano che due mesi dopo l’arenamento della Rosso alcuni camion di notte hanno trasportato rifiuti da Formiciche fino nell’entroterra: in località Grassulio e Foresta di Serra d’Aiello, e lì li avrebbero sotterrati. Le analisi accerteranno in quei terreni alte concentrazioni di granulato di marmo e metalli pesanti sotto forma di fanghi industriali, mentre altri materiali sconosciuti sono ancora sul fondale di Formiciche. Dopo una prima archiviazione, l’inchiesta finisce alla Procura di Reggio Calabria nelle mani del pm Francesco Neri e del capitano di fregata Natale De Grazia: sono i primi a fare sul serio. L’indagine si allarga ed entra in scena il faccendiere Giorgio Comerio. Ma, fatto assai più importante, la Rosso entra nell’elenco delle navi sospette, come la Rigel affondata in circostanze poco chiare nel 1987 a largo di Capo Spartivento, forse con un carico di materiali radioattivi. L’ingegnere Giorgio Comerio nasce nel 1945 a Busto Arsizio, vive a Lugano, nel 1993 fonda una holding denominata Odm, Oceanic disposal management Inc., registrata alle Isole Vergini britanniche con sede in Svizzera. Ufficialmente l’Odm è frutto di un progetto della Comunità europea messo a punto per smaltire scorie nucleari, ma le attività dell’ingegner da Busto Arsizio sono sospettate di coprire il traffico internazionale di rifiuti. Il nome di Comerio, oltre a intrecciarsi con la vicenda Rosso e con la morte di Ilaria Alpi, è legato all’affondamento nel Mediterraneo di oltre quaranta navi cariche di veleni. Lui, tuttavia, si ritiene vittima di una montatura ambientalista: di Greenpeace che, nel 1995, denuncia il suo progetto di seppellire scorie nucleari in Sud Africa. L’ingegnere faccendiere si guadagna ben presto l’appellativo di “affossa-scorie”. È sua, infatti, l’idea di “sparare” a circa 80 metri al di sotto dei fondali marini, siluri, lunghi fino a 25 metri da 200 tonnellate ciascuno, riempiti di scorie radioattive. Per questo l’ingegnere si ritrova indagato per smaltimento illegale di rifiuti nucleari tossico-nocivi. Tutto comincia quando a un controllo doganale a Chiasso, ai confini con la Svizzera, la guardia di finanza ferma un socio di Comerio, Elio Ripamonti, che ha con se i progetti dei penetratori che l’ingegnere sta ideando. Ne vuole costruire 35mila e ha già individuato, contattando una cinquantina di paesi, tra questi Capo Verde, Zaire, Congo, Sierra Leone, Zambia e Somalia, 80 siti di inabissamento e 12 aree ottimali dove sotterrare rifiuti. Il passo è breve. Quei penetratori, i rapporti tra Comerio e strani personaggi portano gli inquirenti della Procura di Reggio Calabria a delineare inquietanti scenari. In più Comerio, scrive la guardia di finanza in un rapporto del 1998, è interessato, per conto di un ente di Stato iraniano, all’acquisto della Jolly Rosso, a bordo della quale verranno rinvenuti documenti e mappe riconducibili alle attività dello stesso faccendiere. Tuttavia la trattativa d’acquisto con la Ignazio Messina non verrà mai conclusa. Il Parlamento comincia a occuparsi di lui, in particolare la commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Si indaga anche sui traffici di armi tra paesi esteri, sulla Somalia e sui rapporti tra Comerio e Ali Mahdi, uno dei signori della guerra somala. Chi è veramente Comerio? Il Sismi, il servizio segreto militare, lo considera un truffatore, un millantatore, ma intanto si parla anche dei suoi contatti con i servizi argentini e di una partita di telemine per affondare tre incrociatori della marina britannica alle Falkland. È proprio nel corso di una perquisizione in casa di Comerio, a Garlasco, siamo nel 1995, viene fuori il certificato di morte di Ilaria Alpi - gli inquirenti troveranno anche altri documenti riguardanti la Jolly Rosso, e un’agenda del 1987 dove c’è un appunto “lost the ship” (la nave è persa) che riguarda proprio la Rigel -. Quel certificato, lo ha detto di recente lo stesso pm Neri di fronte alla commissione parlamentare che indaga sulla morte di Ilaria Alpi, è dentro una cartella gialla con la scritta “Somalia”. Il certificato, emesso forse dal Comune di Roma, viene sequestrato e acquisito agli atti dell’inchiesta di Reggio Calabria. La commissione, seguendo le indicazione del pm Neri, andrà a Reggio Calabria a cercarlo ma dentro quei fascicoli non c’è più. «Non è mai esistito - dirà durante un’audizione nel luglio scorso lo stesso presidente della commissione, Carlo Taormina - né è stato mai trasmesso ad alcuna altra autorità». Che fine ha fatto il certificato di morte trovato nello studio di Comerio? Torniamo alla motonave Rosso. Il sospetto che trasportasse rifiuti tossici e radioattivi è sempre più forte. Il procuratore Neri va avanti nella sua inchiesta, ma avviene qualcosa che determinerà inevitabilmente le conclusioni. Il suo pool è a un passo dalla verità quando, in circostanze ancora poco chiare, muore il capitano Natale De Grazia. È un onesto inquirente, un ufficiale di marina, che tenta di fare il proprio dovere. De Grazia è scrupoloso e con determinazione indaga per mesi: ha il delicato compito di riepilogare gli affondamenti delle navi nei mari Tirreno e Ionio. Deve ricostruire le rotte, localizzare i relitti e dare un nome a ognuna di quelle navi. Per fare questo gira in lungo e in largo il Mediterraneo. Va quasi fino in fondo il coraggioso capitano e scopre le rotte dei rifiuti che passano per La Spezia e per la Calabria. L’ufficiale si avvicina troppo alla verità. Il 13 dicembre del 1995 è in auto, con i suoi colleghi, sta andando a Massa Marittima e La Spezia. De Grazia ha un appuntamento molto importante: deve verificare alcuni registri nautici e sequestrare i piani di affondamento di 180 navi partite da Massa. A La Spezia deve interrogare l’equipaggio della motonave Rosso. Non ci riuscirà. Morirà all’età di 39 anni durante una sosta, a Nocera Inferiore, stroncato da un arresto cardiocircolatorio. Una morte sospetta, che farà arrestare l’intera attività investigativa della Procura di Reggio Calabria. A Massa Marittima, gli inquirenti ci torneranno dopo la sua morte, ma la capitaneria nel frattempo si è allagata e quei documenti non si trovano più. Il 14 novembre 2000 il Tribunale di Reggio Calabria archivia definitivamente l’inchiesta sul caso Jolly Rosso. La verità non è ancora venuta fuori. Passano tre anni. A ricominciare da capo è chiamata, per competenza territoriale, la Procura di Paola con il sostituto Francesco Greco. Ci sono nuove prove, ci sono dei testimoni, la presenza in mare, vicino alla Rosso, di un’altra motonave gemella, la Jolly Giallo, che avrebbe avuto un ruolo. Anche questa volta c’è la volontà di andare fino in fondo, mancano però fondi e uomini per indagare e il rischio prescrizione incombe su questa difficile inchiesta. La partita si allarga ed è ancora aperta.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 23 dicembre 2005 [pdf]