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La-Rettondini-sul-Costa-Concordia-per-il-reality-Professional-Lookmaker-638x425Per la Capitaneria non sarebbe stato possibile, con gli strumenti a disposizione, prevedere il naufragio della Costa Concordia». Ne è convinto il comandante generale del Corpo delle capitanerie, l’ammiraglio Marco Brusco. Per il vertice della Guardia Costiera nulla e nessuno, tranne chi era al timone della Concordia, avrebbe potuto evitare quanto è accaduto la sera del 13 gennaio all’Isola del Giglio. Neanche se la Capitaneria di porto di Livorno avesse interrogato l’Ais, il sistema di geolocalizzazione delle navi, prima delle 22.12, cioè ben mezz’ora dopo la collisione tra la nave Costa e lo scoglio de Le Scole. «L’Ais non è un sistema preventivo - ha spiegato Brusco alla Commissione Lavori pubblici del Senato - ma fa parte di una rete di monitoraggio ben più complessa che è collegata al Vts, ma la zona in cui si è verificato l’incidente, non è area Vts. L’Ais - ha aggiunto l’ammiraglio - è come una videocamera davanti a una banca o in autostrada: si va a verificare dopo quello che è successo, se serve».
I PUNTI DA CHIARIRE. Quindi Livorno, pur avendo la facoltà di seguire in diretta la rotta della Concordia, perché a questo serve l’Ais (lo può fare chiunque anche consultando il sito marinetraffic.com), non era a conoscenza degli “inchini”, né, tantomeno, che quella sera la nave della Costa crociere, ai comandi di Francesco Schettino, era finita sugli scogli del Giglio. Se ne accorgono alle 22.06 quando alla sala operativa della Capitaneria arriva una telefonata dei carabinieri di Prato, contattati dai familiari della signora Concetta Robi che dalla Concordia aveva chiamato sua figlia dicendogli che a bordo c’era qualcosa che non andava. Solo sei minuti dopo Livorno interroga l’Ais e individua la nave. «Non sapevamo assolutamente nulla degli “inchini” - ribadisce Brusco -, ma neanche in altre occasione la Capitaneria è stata avvertita, perché è una manovra che rientra nell’ambito della responsabilità del comandante, che nella sua navigazione, purché rispetti le regole e non condizioni la sicurezza di coloro che stanno a bordo, può fare la sua manovra». Certo, Schettino ha le sue responsabilità, quelle che del resto ha già ammesso rispondendo alle domande dei magistrati della procura di Grosseto, ma, “inchini” a parte, perché la Capitaneria di porto di Livorno abbia perso così tanto tempo, prima di individuare una nave lunga 300 metri che stava affondando con a bordo 4.200 passeggeri, resta un mistero. Che l’Ais serva anche a questo è la stessa azienda che l’ha progettato e venduto alle Capitanerie di Porto, la Elman di Pomezia, ad affermarlo dopo la tragedia: «Se fosse stato utilizzato come si doveva, facendo scattare l’allarme con l’avvicinamento all’isola - hanno dichiarato i suoi tecnici a Repubblica e la Stampa - forse l’incidente della Concordia non sarebbe accaduto». Dalla Capitaneria di Livorno affermano che gli operatori in servizio nella sala operativa eseguono controlli al terminale Ais ogni mezz’ora, e così facendo, per esempio, la notte del 18 gennaio scorso hanno notato un cargo battente bandiera della Tanzania fermo, con i motori in avaria, tra l’isola del Giglio e quella di Montecristo. Quel cargo è stato poi soccorso e trainato fino al porto di Piombino. Perciò, almeno in questo caso, interrogando prontamente l’Ais si è scoperto che una nave era nei guai e si è intervenuti nel giro di pochi minuti. La notte del 13 gennaio, se la regola vale sempre, la sala operativa di Livorno annotò sul brogliaccio che alle 22 in punto il «traffico marittimo era regolare». Così non era, perché da almeno un quarto d’ora la Concordia aveva impattato sugli scogli e cambiato rotta di 180 gradi. ...continua a leggere "I buchi neri della Concordia"

«Se qualcuno avesse interrogato il sistema Ais, forse non ci sarebbe stato bisogno di quella telefonata ai carabinieri di Prato, perché a Livorno si accorgessero che la Costa Concordia era già troppo vicina all’Isola del Giglio e addirittura con la prua rivolta verso sud, e non nella direzione del porto di arrivo. Quel sistema serve a dedurre in tempo reale, come avviene per gli aerei, l’esatta posizione delle navi attraverso un transponder installato a bordo». A parlare è un esperto di sicurezza marittima che conosce bene le caratteristiche dell’Ais, acronimo di Automatic Identification System. Si tratta di un sistema internazionale obbligatoriamente installato sulle navi di stazza superiore alle trecento tonnellate, come la Concordia affondata il 13 gennaio di fronte all’Isola del Giglio, e in grado di trasmettere le informazioni necessarie a identificare e localizzare il mezzo navale: il nome dell'unità, il codice Mmsi (Maritime Mobile Service Identification), latitudine e longitudine, velocità e rotta. Per ottenerle, nell’arco di pochi istanti, basta puntare il mouse sul triangolo che rappresenta la nave geolocalizzata su una mappa.
La prova che nessuno - prima di quella telefonata dei carabinieri di Prato, avvisati da un familiare di un passeggero che a bordo della nave c’era qualcosa che non andava - abbia scrutato lo schermo dell’Ais è nella prima pagina del brogliaccio della sala operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Alle 22 in punto, quando la Costa Concordia era già nei guai da circa mezzora, l’operatore Ais scrive: «Traffico marittimo regolare». Sei minuti dopo arriva la chiamata dei carabinieri, e ne dovranno passare altri 6 prima che l’operatore della Capitaneria annoti sul registro: «Da verifica Ais individuiamo la M/N Costa Concordia in prossimità dell’Isola del Giglio in psn 42°22’.11N - 010°55.32E in località Punta Lazzaretto». Perciò solo alle 22.12 Livorno si accorge che la Concordia è fuori rotta, di diverse miglia, inclinata su un fianco e con la prua rivolta verso Civitavecchia e non Savona. L’Ais viene interrogato solo in quel momento, e addirittura dopo aver chiamato il porto di Savona, la telefonata nel brogliaccio è annotata alle 22.10, e aver appreso «che nella giornata odierna non sono partite navi della Costa Crociare». Perché? Ais serve a evitare tragedie come queste, e nei suoi ricordi - pubblici accedendo al sito marinetraffic.com - è possibile rintracciare la prova che la Concordia aveva già effettuato ben 52 “inchini”, troppo vicini alla costa come nel caso dell’Isola del Giglio. Nessuno li ha denunciati, perché nessuno, prima della sera maledetta del 13 gennaio, era andato a cercare la prova di queste violazioni sui tracciati satellitari. ...continua a leggere "Doppio giallo per un MayDay"

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ROMA - C'era un tratto di cielo, la sera del 27 giugno 1980, che non era controllato a sufficienza dai radar italiani, civili e militari. E in quel buco nero sparì il Dc9 Itavia, precipitando nelle acque di Ustica. E' per questo motivo che ieri lo Stato è stato condannato a risarcire le vittime di quella strage irrisolta. A stabilirlo è una sentenza della terza sezione civile del Tribunale di Palermo, che ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a pagare oltre 100 milioni di euro (più interessi e oneri accessori) a ottanta familiari delle vittime. Affermando anche la precisa responsabilità dei due dicasteri, che non fecero abbastanza per garantire l'incolumità dei 77 passeggeri e dei quattro membri dell'equipaggio di quel volo Itavia 870 che ha segnato un pezzo della nostra storia recente.
Il Dc9 decollato da Bologna - secondo quanto hanno sostenuto i legali dei familiari che nel 2008 intentarono causa nei confronti dello Stato - per raggiungere Palermo attraversò un tratto dell’aerovia Ambra 13 scarsamente vigilato dalla rete radar della Difesa. E in quel buco nero, a metà strada tra le isole di Ponza e Ustica, l’aereo I-Tigi si trovò al centro di una battaglia aerea e finì per diventare un bersaglio, precipitando in mare dopo essere stato colpito da un missile o a causa di una collisione con un altro velivolo.
I familiari delle vittime, invocando l'esistenza del diritto all'accertamento della verità, avevano citato in giudizio i due ministeri affermando che non potevano non essere a conoscenza - prima, durante e dopo la sciagura - che quel tratto di rotta era scarsamente coperto dai radar. Il giudice palermitano Paola Proto Pisani, dopo aver rispolverato l’istruttoria penale condotta dal giudice Rosario Priore, che nel 2007 portò all’assoluzione definitiva degli ultimi due imputati (gli allora vertici dell’Aeronautica militare), afferma oggi che con ogni probabilità intorno al Dc9 c’erano altri aerei, come evidenziarono le registrazioni radar di Ciampino. Una ricostruzione che collima con quanto scrisse Priore nelle conclusioni della sua sentenza-ordinanza, e cioè che fu proprio l’Aeronautica a non informare correttamente il governo sulla presenza d’intenso traffico militare intorno all’ultima “battuta” radar del Dc9.
La sentenza del tribunale di Palermo, che già in passato aveva condannato lo Stato a risarcire altri familiari delle vittime, riapre così lo scivoloso dibattito sull’affaire Ustica. Tutto questo mentre la procura di Roma attende le risposte alle rogatorie internazionali trasmesse lo scorso anno a Francia, Stati Uniti, Germania e Nato dopo le dichiarazioni di Francesco Cossiga che nel corso di alcune interviste (e sotto giuramento davanti ai giudici di Palermo) tirò in ballo l’aviazione francese, affermando che il Dc9 era stato colpito per errore durante un’operazione coperta che doveva portare all’abbattimento di un aereo che trasportava Gheddafi. Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione familiari delle vittime, ha definito la sentenza di Palermo di «elevato spessore civile». «E’ stato finalmente riconosciuto - ha aggiunto - il danno subito dai familiari per la negazione della verità e della giustizia, e questa sentenza è anche la conferma, come abbiamo sempre sostenuto, che quanto avvenne quella notte intorno al Dc9 è scritto nelle conclusioni dell’istruttoria di Priore».

di Fabrizio Colarieti - Il Messaggero, 13 settembre 2011 [pagina originale]

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