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ansa_raniero-buscoVolto teso, sguardo smarrito. Raniero Busco è apparso così, il 3 febbraio, alla prima udienza del processo che lo vede sul banco degli imputati, come unico protagonista, con la terribile accusa di aver ucciso con 29 coltellate, il 7 agosto del ’90, la sua ex fidanzata Simonetta Cesaroni. Busco è giunto nella cittadella giudiziaria di Rebibbia qualche minuto prima delle 9,30, insieme al suo avvocato. Quando ha varcato la porta dell’aula “A” è apparso dimagrito, spaesato, con gli occhi sbarrati. Dopo essersi guardato un po’ intorno si è tolto la giacca e ha chiesto al suo legale, Paolo Loria, dove doveva sedere. Alcuni giornalisti si sono avvicinati e lui, con un sorriso freddo, gli ha stretto la mano declinando ogni invito a rilasciare dichiarazioni. “Sono tranquillo? Beh, direi che questa è una parola grossa”, l’unica frase che si è lasciato sfuggire. Poco dopo è arrivata anche sua moglie, Roberta Milletarì, che invece ha rotto il silenzio, tenendo per mano suo marito e parlando tutto d’un fiato: “L’incubo ha preso forma tre anni fa. Ma non ci aspettavamo che si arrivasse a un processo. Mio marito è innocente. Non abbiamo nulla da nascondere e spero che oggi sia l’inizio della fine di questa brutta storia”.
Sul capo di Busco, oggi 45enne, pesa l’accusa di omicidio volontario, aggravato dalle sevizie e dalla crudeltà, e sarà il presidente della terza Corte d’Assise, Evelina Canale, insieme al giudice a latere, Paolo Colella, e a undici giudici popolari (5 donne e 6 uomini), a stabilire se fu proprio lui a massacrare la 21enne Simonetta Cesaroni in quel torrido martedì 7 agosto 1990. La ragazza, ricordiamo, stava lavorando nell’ufficio dell’Associazione italiana alberghi della gioventù, al civico 2 di via Carlo Poma, quando tra le 17,30 e le 18,30, dopo essere stata stordita da un colpo in testa, venne uccisa con ventinove coltellate vibrate dovunque con ferocia crudele e inaudita.
Il dibattimento per il delitto di via Poma inizia dopo vent’anni di indagini e dopo che per la terza volta consecutiva la procura, e con essa un’intera generazione di investigatori, ha cambiato idea sul nome del presunto assassino, arrivando per esclusione, solo nel novembre scorso, al rinvio a giudizio di Busco. Gli esiti di questo processo non sono scontati ed è prematuro pronosticare come andrà a finire. Sarà sicuramente uno processo lungo, faticoso e pieno di colpi di scena: uno di quelli che fanno scuola, a giudicare anche dalla presenza in aula di un folto gruppo di studenti del corso di giurisprudenza della Sapienza.
Il pm Ilaria Calò, rappresentante dell’accusa, ha in mano tre indizi: una traccia di sangue e una di saliva trovata sul reggiseno, compatibili con il dna di Busco, e quel morso a forma di “V”, sul seno sinistro, che secondo i consulenti della procura sarebbe altrettanto compatibile con l’arcata dentaria dell’imputato. Tutte prove indiziarie, di natura prettamente scientifica, che andranno sostenute in dibattimento. “È un dovere dello Stato fare questo processo. L'omicidio è il più grave dei crimini contro la vita ed è imprescrittibile. L'interesse dello Stato quindi non si prescrive mai”. Con queste parole, la stessa Calò ha iniziato la sua relazione introduttiva. Dopo la lettura del capo di imputazione il magistrato ha elencato tutte le prove che porterà in aula durante il processo - distinguendole tra testimoniali, scientifico-tecniche e documentali - e una lunga lista di testimoni (84 quelli del pm, 26 quelli della difesa) che saranno chiamati a deporre.
Si torna in aula il 16 febbraio, con la testimonianza della madre e della sorella di Simonetta Cesaroni, Anna Di Gianbattista e Paola Cesaroni (assenti alla prima udienza). Nelle successive udienze dovranno tornare a parlare, come annunciato dal pm, anche tutti gli investigatori che negli anni si sono occupati del rompicapo di via Poma, sia al momento del fatto che nel corso delle indagini, e tra loro ci sono anche nomi eccellenti, come Nicola Cavaliere, attuale vicedirettore operativo dell’Aisi (l’ex Sisde). Dovranno testimoniare anche gli amici comuni di Simonetta e Raniero, i familiari di quest'ultimo e anche il datore di lavoro della Cesaroni, Salvatore Volponi. Tra le prove ammesse, oltre le decine di bobine di intercettazioni telefoniche, ci sono anche quelle scientifiche, come le tracce biologiche repertate sugli indumenti della vittima e sul luogo del delitto e analizzate dai consulenti della procura, e quelle medico legali e odontoiatriche. Tra quelle documentali, di cui il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto l’acquisizione al fascicolo del dibattimento, ci sono, invece, le registrazioni delle dichiarazioni rese nel ‘90 dai familiari della vittima e dal suo ex fidanzato, durante la trasmissione televisiva “Telefono giallo”. Al vaglio della Corte anche i provvedimenti con i quali fu archiviata la posizione del portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, e fu prosciolto il giovane Federico Valle, che abitava nello stesso palazzo. La corte ha accolto anche la richiesta del Comune di Roma di costituirsi parte civile, per l’eventuale danno causato all’immagine della Capitale.
Lo scambio di colpi tra le parti si annuncia già aspro. “Oggi non si parla più di supposizioni, ma di un imputato, di una istruttoria dibattimentale avviata alla luce del sole in cui ci sarà una progressiva acquisizione di prove che dovranno sostenere o contraddire l'accusa”. Afferma l'avvocato Lucio Molinaro, legale di parte civile della madre della vittima: “Rimane il nostro impegno - ha proseguito - per contribuire all'accertamento della verità e anche per la soddisfazione della famiglia che ha sempre voluto la condanna del colpevole”.
L’asso nella manica della difesa, tuttavia, potrebbe essere la testimonianza di due vicine di casa che videro Busco, nel corso di quel pomeriggio, nel suo garage impegnato a riparare una macchina mentre a Prati, dall’altra parte della città, veniva uccisa la sua fidanzata. Ma sul conto dell’uomo pesa anche un alibi che non tenne: disse che quel pomeriggio l'aveva passato con un amico, ma questi negò. Secondo il suo difensore, l'avvocato Paolo Loria: “Ci accingiamo a fare questo processo con la serenità dell'innocente. Tutto quanto abbiamo sentito oggi ce lo aspettavamo. Si tratta di situazioni scontate che per il 90 per cento non ci interessano. Siamo e sono sicuro dell'innocenza di Busco”.
Il tamtam, intanto, è cominciato anche su Facebook, dove è apparso un gruppo a sostegno dell’innocenza di Busco a cui stanno aderendo in centinaia, compresa la moglie dell’imputato, che rientrando a casa, dopo la prima udienza, ha scritto sulla bacheca: “Ragazzi è iniziata questa lunga e triste avventura e quando una cosa inizia, prima o poi finirà. Grazie a tutti per il calore che sempre ci dimostrate. Ro&Ra”.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 18 febbraio 2010 [pdf]

Un’ombra. Di lui si dice che potrebbe essere ancora in servizio, ma anche che sarebbe morto di tumore. Aveva, o forse ha ancora, il viso deforme: un volto sfigurato, orrendo, paragonabile solo a quello di un mostro. “Faccia da mostro”, così lo chiamano giù in Sicilia, e così lo ha chiamato recentemente anche Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, don Vito, quello del “papello” e della trattativa tra Stato e mafia su cui si indaga ancora. Dopo il super latitante Matteo Messina Denaro, “faccia da mostro”, oggi è il ricercato numero uno.
L’innominabile. Era un agente del Sisde, il servizio segreto civile (oggi Aisi, ndr). Era a Palermo. Nelle storie di mafia, “faccia da mostro”, c’è dentro fino al collo e a quanto pare gli inquirenti, che da anni lo cercano, non lo hanno ancora identificato. Forse a quel volto, di cui esisterebbe solo un confuso identikit, non si potrà mai dare un nome, perché quando qualcuno tenterà di svelarlo, come accade spesso, il segreto coprirà per sempre la sua identità. Il suo nome, anzi il suo soprannome, - legato a quelle inconfondibili caratteristiche del volto dovute, almeno così pare, a un tumore e a una lunga serie di interventi chirurgici - salta fuori la prima volta nell’89. Nessuno lo nomina, la sua identità non è mai stata svelata sulla stampa, ma tutti parlano di quell’uomo misterioso che, come un’ombra, entra ed esce dalle oscure vicende siciliane.
L’Addaura. La prima a parlare di lui è una donna che poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti, dentro un’auto, insieme a un altro individuo. La donna se lo ricorda proprio perché il suo volto era inguardabile. Era il 21 giugno 1989, Falcone aveva affittato per il periodo estivo quella villa sulla costa palermitana. Intorno alle 7.30 tre agenti di polizia trovano sugli scogli, a pochi metri dall’abitazione, una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera e una borsa sportiva blu contenente una cassetta metallica. Dentro c’è un congegno a elevata potenzialità distruttiva composto da 58 candelotti di esplosivo. La bomba non esplode, l’attentato fallisce. Qualche ora dopo, in quella villa, Falcone doveva incontrare due colleghi svizzeri: il pm Carla del Ponte e il giudice istruttore Claudio Lehmann, in Sicilia per le indagini sul riciclaggio di denaro. La bomba era per loro. “Faccia da mostro”, dice la testimone, quella mattina era lì.
Il confidente. Ne parla anche la “gola profonda” Luigi Ilardo, il mafioso, cugino e braccio destro del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri, ma un anno dopo gli tapparono per sempre la bocca. Ilardo confidò al colonnello Michele Riccio del Ros che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, uno chiacchierato. Il confidente, parlando dello strano agente segreto, disse agli inquirenti: «Di certo questo agente girava imperterrito per Palermo. Stava in posti strani e faceva cose strane».
Le morti sospette. “Faccia da mostro” è legato anche a una lunga scia di sangue e di strane morti, come l’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Agostino dava la caccia ai latitanti, pare anche per conto del Sisde, e sembra avesse informazioni sul fallito attentato all’Addaura. Le indagini non hanno mai chiarito, fino in fondo, come sono andate le cose, però sembra che l’agente, poco prima di morire, avesse ricevuto in casa una strana visita, quella di un collega con la faccia deforme. A dirlo è suo padre, Vincenzo, che riferì agli inquirenti che un giorno notò “faccia da mostro” vicino l’abitazione del figlio. Vuole giustizia e cerca la verità da anni, Vincenzo Agostino, non si taglia la barba dal giorno in cui gli hanno ucciso il figlio e la nuora, che era incinta di cinque mesi. Per lui, quell’uomo, era l’inguardabile: «Quell’ uomo è venuto a casa mia, voleva mio figlio. Quel tizio non è soltanto implicato nei fatti di Capaci e di via D’Amelio, ha fatto la strage in casa mia, quella in cui sono morti - disse ai magistrati il padre di Agostino - mio figlio Nino, mia nuora e mia nipote. Due persone vennero a cercare mio figlio al villino. Accanto al cancello, su una moto, c’era un uomo biondo con la faccia butterata. Per me era faccia di mostro». Un altro pesante sospetto lega “faccia da mostro” a un altro delitto, quello dell’ex agente di polizia Emanuele Piazza. Il suo nome in codice era “topo”, collaborava con il Sisde, era amico di Nino Agostino, ma non era ancora un effettivo. Figlio di un noto avvocato palermitano, era un infiltrato e dava la caccia ai latitanti quando, il 15 marzo 1990, scompare nel nulla. Molti anni dopo si saprà che fu “prelevato” con un tranello dalla sua abitazione da un ex pugile, vecchio compagno di palestra, portato in uno scantinato di Capaci, ucciso e sciolto nell’acido. Cercava la verità sulla morte del suo amico Antonino Agostino, forse l’aveva anche trovata, e anche lui sapeva qualcosa sull’Addaura.
La trattativa. Poi, più recentemente, è Massimo Ciancimino, a parlare dell’agente segreto inguardabile e innominabile. Ciancimino junior, però, è in grado di fornire ai magistrati di Caltanissetta e Palermo - quelli che indagano tuttora sugli attentati del ‘92 e sulla trattativa tra Stato e mafia - anche nomi e numeri di cellulare di agenti in contatto con il padre. Quei riferimenti li tira fuori dalle agende del padre, ricche di numeri che contano. Parla di un certo “Franco” e di “Carlo”, ma forse erano i nomi di copertura di un solo 007. Ma Massimo Ciancimino conferma ai magistrati anche che l’uomo con la faccia di un mostro era in contatto con suo padre da anni, ma non ne conosce l’identità. Conferma pure che i contatti con gli spioni sono proseguiti anche dopo la morte del padre e, più di recente, quando decise di consegnare ai magistrati il famoso “papello” con le richieste di Cosa nostra.
L’agenda rossa. Ancora ombre, il 19 luglio 1992, pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso Paolo Borsellino e i suoi angeli custodi. Le istantanee sono diverse e ritraggono numerosi agenti in borghese che si muovono in quella terribile scena. Uno di loro - uno dei pochi identificati analizzando quei fotogrammi - era il tenente colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, accusato (e poi prosciolto) di aver sottratto l’agenda rossa, quella dove il giudice annotava ogni cosa e che teneva sempre con sé. Quell’agenda è scomparsa, l’ufficiale non l’ha rubata, pur essendo stato fotografato con in mano la borsa del giudice. Dentro quella borsa, di fatto, l’agenda non c’era e molti di quei volti fotografati in via D’Amelio non hanno ancora un nome, compreso quello di un altrettanto misterioso personaggio che sembra allontanarsi da quell’inferno tenendo qualcosa sotto la giacca.
Le indagini. “Faccia da mostro”, in Sicilia, dopo Matteo Messina Denaro, oggi è il ricercato numero uno. Lo cercano i magistrati di Palermo e Caltanissetta, che il 18 novembre scorso hanno chiesto ai vertici del Dis la documentazione sugli eccidi di Capaci e via D’Amelio e informazioni su alcuni agenti sotto copertura che potrebbero avere avuto un ruolo nel fallito attentato all’Addaura e sugli omicidi di Emanuele Piazza e Nino Agostino.

Il Punto - di Fabrizio Colarieti - 20 gennaio 2010 [pdf]

Gli italiani non hanno diritto di conoscere la verità sul caso Ustica. E così anche i familiari degli ottantuno passeggeri del volo Itavia che la sera del 27 giugno 1980, mentre andava da Bologna a Palermo, s'inabissò nel Tirreno. Loro, i passeggeri, affrontando quel volo da inconsapevoli vittime della Ragion di Stato, non sapevano di certo che non sarebbero mai atterrati e che ventotto anni dopo la loro fine sarebbe stata ancora un mistero.Quella notte le tenebre hanno inghiottito, senza appello, la loro vita, la dignità di questo Paese e la verità su un caso che ora due magistrati della procura di Roma tenteranno di riaprire. Quella notte è successo qualcosa che mai nessuno avrebbe dovuto sapere. Sapevano e sanno, tuttavia, solo coloro che dovevano proteggere il volo di quell'aereo civile e che invece sono diventati, per sempre, i custodi di un segreto inconfessabile. ...continua a leggere "Ustica, ventotto anni dopo"

Scoop pericolosi. «Ecco come le anticipazioni della stampa hanno fatto morire l’inchiesta “Why not”». Parla Gioacchino Genchi, consulente del pm Luigi de Magistris. Rimosso dall’incarico dopo la bufera sul ministro Mastella.

Se fosse tutta colpa di uno scoop pilotato? E se quell’indagine fosse andata fino in fondo, cosa sarebbe accaduto? Un lettore inglese direbbe semplicemente “why not”, perché no.
Sembra che a Catanzaro le cose siano andate più o meno così. C’erano due personaggi da fermare a tutti i costi: un giudice troppo perspicace, Luigi de Magistris, e un superconsulente dall’udito sopraffino, Gioacchino Genchi. Due che lavorano in segreto, lontano dal clamore. Il giudice indaga da dicembre 2006 su un colossale intreccio politico-affaristico-massonico, teso a distrarre fondi europei. Il cyber-poliziotto Genchi arriva a Catanzaro a fine marzo.

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