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Moby Prince, un giallo ancora irrisolto

moby princeVentiquattro anni dopo la notte del rogo del Moby Prince (10 aprile 1991, 140 morti), il parlamento, attraverso una commissione monocamerale d’inchiesta, appena approvata al Senato, tenterà di fare luce tra le nebbie del porto di Livorno dopo le controverse conclusioni di un processo e dell’inchiesta-bis archiviata cinque anni fa. Una commissione fortemente sostenuta dai familiari delle vittime e da una petizione firmata da 21 mila cittadini, che rischia di portare a un nulla di fatto a causa di un segreto che negli anni ha dimostrato di essere inconfessabile.
Un debito di verità che dovrà fare i conti anche con la procura di Livorno, che ha più volte fatto sapere che la chiarezza su questa vicenda è stata già fatta, e su non poche implicazioni internazionali che coinvolgono un Paese nostro fedele alleato: gli Usa. Perché, quella notte, mentre i passeggeri del Moby Prince andavano a morire contro la petroliera Agip Abruzzo, nel porto e nella rada di Livorno c’erano gli americani. Una certezza che negli anni ha trasformato la tragedia di quel traghetto nella “Ustica del mare”. Troppe coincidenze.
Troppe presenze anomale in quel tratto di mare ingolfato come quel pezzo di cielo dove il 27 giugno 1980 si trovò, in altrettanto casuale compagnia, il Dc9 della compagnia Itavia. Due storie diverse, due tragedie distanti tra loro, ma unite dallo stesso pauroso sospetto. Meglio attribuire tutto alla nebbia, come ha concluso l’inchiesta giudiziaria, meglio ancora se la colpa è del traghetto o dell’aereo, di un impianto antincendio che non si azionò, delle strutture che cedettero o, addirittura, dell’equipaggio che era distratto a guardare la partita Barcellona-Juventus.
In questa brutta pagina della nostra marineria, poi, ci sono di mezzo i radar che forse hanno visto, ma non parlano, come quelli, tali e quali, di Ustica. C’è di mezzo la guerra, quella del Golfo che era appena finita. E ci sono gli omertosi silenzi, quelli delle autorità americane, come per Ustica, il Cermis, il caso Calipari.
L’Italia, in quegli anni, ma anche oggi, ospita sul suo suolo decine di insediamenti militari americani, molti di essi impiegati per la sorveglianza elettronica, quello che nel linguaggio delle spie si chiama Sigint. Eppure quella notte, a Livorno – dicono gli americani – le loro antenne non sentirono nulla e i loro satelliti spia non videro nulla. Come quando Washington tentò di rifilarci la storiella della portaerei Saratoga, che la notte della strage di Ustica era sì nel porto di Napoli, ma con i radar e le antenne “tirate giù”.
In queste storie ci sono di mezzo i segreti di Stato, i depistaggi, i faccendieri senza scrupoli, le carte che scompaiono e le manine che truccano il gioco. Il sospetto che mina il racconto ufficiale dei fatti. Come un’ombra strisciante. Perché quella sera, oltre a quei 140 disgraziati, in mare, tra Livorno e la base americana di Camp Darby a Tombolo (Pisa), c’erano, “a razzolare” (volendo usare un termine legato a Ustica), diverse navi, militari e militarizzate, americane. Erano lì perché in quei giorni del ’91 si era appena chiusa la Prima Guerra nel Golfo, ed essendo Camp Darby il più grande arsenale Usa in Europa, c’era un bel viavai. Armi, mezzi e uomini che tornavano da una guerra.
Navi che hanno un nome, secondo l’avvocato Carlo Palermo, l’unico ad aver tentato di spostare l’attenzione degli inquirenti sulla pista americana. Secondo le sue indagini difensive, che permisero nel 2006 di riaprire l’inchiesta – indagini dalle conclusioni totalmente infondate secondo l’ultimo verdetto della procura di Livorno – la sera del 10 aprile 1991, a Livorno, in rada e in porto, c’erano diverse navi militari battenti bandiera statunitense: la Gallant II, la Cape Breton, la Cape Flattery, la Cape Farwell e la Efdin. Poi la nave Theresa: un fantasma del mare. È lì, a due passi dall’inferno, tra la nebbia, il suo equipaggio parla alla radio, in inglese, dice e non dice, poi scappa e scompare nel nulla. Come quell’elicottero, anche lui americano, che alcuni testimoni vedono volteggiare sopra il Moby Prince mentre il traghetto è in fiamme. Ma la nebbia, quella che secondo gli inquirenti causò tutto, forse coprì anche loro: le navi fantasma e gli elicotteri fantasma.
Esiste una perizia, commissionata dai figli del comandante del Moby Prince che riguarda proprio la misteriosa Theresa. «Dalle nostre comparazioni», ha spiegato Gabriele Bardazza, l'esperto nominato dai familiari del comandante Chessa, «si evince che Theresa è il Gallant II, una delle navi militarizzate che quella notte erano impegnate nel trasporto di armi presso la base di Camp Darby». Resta da capire, prosegue Bardazza, «il motivo per cui il comandante abbia ritenuto di non utilizzare via radio il proprio identificativo ma un nome in codice, come resta da spiegare il fatto che i periti del tribunale non si siano mai preoccupati di analizzare a fondo le registrazioni per chiarire chi fosse Theresa, nonostante nel processo di questa nave fantasma si sia parlato a lungo».
La storia si ripete. Ancora una volta a tornare sul banco degli imputati e dentro la scatola dei misteri è la sovranità limitata e gli americani che fanno quel che vogliono. Dunque, senza una precisa volontà politica, come nel caso Ustica, anche questa commissione d’inchiesta rischia di fermarsi davanti a un muro di gomma, che c’è e che in 24 anni non ha consentito di giungere alla verità e, a dirla tutta, neanche a chiarire l’esatta dinamica della più grave sciagura della nostra marina in tempo di pace.

di Fabrizio Colarieti per lettera43.it [link originale]

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