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Totò RiinaOgni stagione, a Palermo, ha i suoi corvi e i suoi misteri. E anche stavolta, come in un gioco di specchi, più o meno come all’epoca delle stragi di mafia, si è di nuovo materializzato, tra le stanze del palazzo di giustizia di Piazza Vittorio Emanuele Orlando, un corvo. Dodici pagine, 24 paragrafi scritti al computer, con lo “stellone” della Repubblica italiana in cima al primo foglio. A prima vista, quella recapitata a fine settembre nell’abitazione del sostituto procuratore Nino Di Matteo, sembra una velina in pieno stile dei Servizi. Perché i suoi contenuti – degni di approfondimento secondo la procura di Caltanissetta che sta compiendo «cauti accertamenti» su quella dozzina di cartelle – fanno tornare in mente le perverse azioni di depistaggio che per anni, durante lo stragismo, hanno distinto la cosiddetta ala deviata della nostra intelligence e condizionato decine di inchieste giudiziarie.
LA LETTERA ANONIMA - Il linguaggio, lo stile, i dettagli minuziosamente riferiti, dicono che quell’ambiguo interlocutore ha voglia di vuotare il sacco, di collaborare, o forse no, solo di depistare e distrarre gli inquirenti che indagano, ancora oggi, sulle stragi del ’92 e sulla trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. Giù a Palermo dicono che dietro quelle carte, che contengono almeno una decina di spunti investigativi «percorribili», ci sia la mano di un ex carabiniere, che cita tanti suoi colleghi, o comunque di un uomo dello Stato, ben informato e ben introdotto negli ambienti degli apparati di sicurezza e della polizia giudiziaria siciliana. Potrebbe essere anche un ex infiltrato, cioè qualcuno che ha operato nell’ombra al soldo dell’intelligence, che conosce notizie e azzarda analisi, non alla portata di tutti. È lui stesso ad affermare che ciò che scrive è frutto della sua esperienza, cioè di quello a cui in alcuni casi ha anche assistito. C’è, perciò, una sostanziale differenza tra il “corvo” del ’92 e l’odierno anonimo che ha titolato il suo dossier Protocollo fantasma: perché il primo nei suoi scritti, alcuni dei quali recapitati su carta intestata della Criminalpol, puntava a demolire l’antimafia e i suoi simboli siciliani (Ayala, Falcone, De Gennaro) e non a condurla verso nuove verità, tutte da verificare. ...continua a leggere "C’è un corvo anche a Palermo"

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«Gli accordi e la trattativa di cui parlano i magistrati di Palermo? Sono bufale inventate di sana pianta. Il generale Mario Mori ha servito il suo Paese e lottato contro la mafia». A parlare è Roberto Longu, ex maresciallo del Ros, membro di Crimor, lo speciale nucleo dell’Arma dei Carabinieri che nel ’93, al comando del capitano “Ultimo”, al secolo colonnello Sergio De Caprio, arrestò Totò Riina. «Non ci fu nessun accordo con Riina. La mafia - prosegue Longu - noi la combattevamo e basta. Quel giorno c’ero anch’io: la perquisizione del covo del capo dei capi non fu fatta solo ed esclusivamente per motivazioni di ordine operativo, legate alla strategia investigativa di Crimor. Il resto sono tutte sciocchezze inventate di sana pianta da alcuni magistrati di Palermo. Basta rileggersi la prima sentenza, quella che assolse Mori e Ultimo dall’accusa di favoreggiamento aggravato (in favore di Cosa Nostra, ndr) per la famigerata mancata perquisizione del covo di via Bernini, per rendersi conto che fu proprio De Caprio a opporsi alle scelte del pm Vittorio Aliquò. Il magistrato voleva operare facendoci perquisire un luogo dove il boss era stato molti anni prima e se l’avessimo ascoltato probabilmente Riina oggi non sarebbe in carcere. Perché non indagano Aliquò? La magistratura non è un pezzo dello Stato come il Ros? Ora - va avanti l’ex maresciallo - si inventano che è tutta una macchinazione, che addirittura ci fu una trattativa tra lo Stato (cioè noi del Ros) e la mafia, tra l’altro dando credito alle rivelazioni di Massimo Ciancimino che, non lo dimentichiamo, è figlio del padre. C’ero anche nel ’95, nella masseria di Mezzojuso, dove un collaboratore ci disse che avremmo dovuto trovare Bernardo Provenzano. Non si sapeva né quando né come. La fonte doveva recarsi in quel posto su ordine dello stesso Provenzano - aggiunge Longu - e non avevamo alcuna certezza sulla fondatezza di queste informazioni. In più quel casolare era in una zona isolata, al centro di una piana, e controllarlo da vicino era difficilissimo, perché tutti in quel paese di quattro anime si sarebbero immediatamente accorti della nostra presenza. Perché non furono installate delle telecamere? Perché non c’erano posizioni idonee. Non è stato mai rivelato un altro particolare: effettuammo anche un’intrusione notturna nel casolare, per tentare di installare delle microspie, ma non fu possibile. A quel tempo in alcune zone mancava l’energia elettrica e perciò bisognava avvisare l’Enel e utilizzare i loro mezzi per posizionare le apparecchiature e ciò significava rivelare la nostra presenza, cioè compromettere l’indagine. Abbiamo fatto centinaia di controlli e sopraluoghi e Provenzano non lo abbiamo visto. Nessuno ci bloccò - chiosa l’ex maresciallo del Ros - nessuno ci disse “non lo prendete” e la catena di comando non fece altro che stare alle nostre direttive che eravamo sul posto e che per giorni avevamo fatto il servizio di Ocp (osservazione, controllo e pedinamento, ndr) intorno a quella masseria».

Fabrizio Colarieti - 27 ottobre 2010