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giorgio napolitanoEra scontato che la decisione di Giorgio Napolitano di sollevare il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale avrebbe ravvivato il fuoco delle polemiche. E anche al Colle non potevano non esserne consapevoli. «Può darsi che la mia scelta non risulti comoda per l’applauso e mi esponga a speculazioni miserrime», aveva del resto ammesso proprio il capo dello Stato. Sebbene le telefonate della discordia, tra il Presidente della Repubblica e Nicola Mancino, restino segretissime. Le altre, invece, quelle intercettate dai magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia, tra l’ex presidente del Senato e il consigliere giuridico del Presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, sono state pubblicate. Da un lato, per il Quirinale, la sola idea che la prima carica dello Stato fosse lambita dal minimo sospetto in un momento tanto delicato per il Paese, nonostante la stessa procura di Palermo abbia più volte ribadito l’irrilevanza penale di quelle conversazioni, era inaccettabile. Ma per le stesse ragioni, dalla crisi economica alle pericolose oscillazioni di uno spread di nuovo fuori controllo, ad appena quattro mesi dal semestre bianco, con il capo dello Stato principale sponsor del governo Monti alle prese con il suo momento di massima difficoltà, la scelta di ricorrere alla Consulta potrebbe rivelarsi un boomerang. Cosa accadrebbe se la Corte respingesse il conflitto di attribuzione?
IL POMO DELLA DISCORDIA. I fatti che hanno dato il via alla polemica sono noti. Quei file registrati dalla Dia mostrano un Mancino preoccupato e ansioso, che teme il confronto disposto dai pm con l’ex Guardasigilli, Claudio Martelli («Non vorrei che dal confronto viene fuori che io ho fatto una dichiarazione fasulla e quello ha detto la verità, perché a questo punto chi processano? Non lo so…», dice a D’Ambrosio). L’ex ministro degli Interni lamenta anche assenza di coordinamento tra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, doglianze che, il 4 aprile 2012, il segretario generale della Presidenza della Repubblica, gira con una lettera al Procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito nella fase di passaggio delle consegne con Gianfranco Ciani. L’iniziativa del Quirinale ha un seguito: il 19 aprile si tiene in Cassazione una riunione cui partecipano, tra gli altri, lo stesso Pg Ciani e il Pna Piero Grasso. E’ proprio Grasso , dopo aver evidenziato «la diversità dei vari filoni d’indagine» tra Caltanissetta, Firenze e Palermo e «la loro complessità», a far mettere a verbale «di non avere registrato violazioni del protocollo del 28 aprile 2011 tali da poter fondare un intervento di avocazione». Risultato: il confronto con Martelli si terrà regolarmente e Mancino finirà indagato per falsa testimonianza. Ma quando la vicenda finisce sui giornali, non mancano le polemiche. Sebbene, Italia dei Valori a parte, l’intero emiciclo parlamentare, a cominciare dai tre partiti di maggioranza, facciano sin da subito quadrato intorno a Napolitano.
ASSEDIO AL QUIRINALE. «Non esiste alcuna motivazione giuridica che giustifichi un atto del genere. Il Presidente Napolitano sta commettendo l’ennesimo scempio, rendendosi di fatto complice dell’isolamento dei magistrati palermitani che stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia. Una manovra tanto più squallida, perché compiuta alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio». Tuona il presidente della Commissione europea antimafia, Sonia Alfano, evocando «la stessa sindrome che caratterizzò gli ultimi mesi del settennato di Cossiga». Parole dure che si sommano a quelle del leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, che accusa il capo dello Stato di «evidente conflitto di interessi» e di ostacolare «l’accertamento della verità» sulla strage di via D’Amelio: «Mi piacerebbe chiedergli cos’hai da nascondere? Cosa c’è nelle telefonate con Mancino che noi non possiamo sapere?». Il Colle è al centro delle polemiche e Napolitano è costretto, proprio nelle ore in cui a Palermo si ricordano Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, a tornare sull’argomento. «La decisione che nei giorni scorsi ho preso, di sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale, è stata dettata – ha sottolineato il Capo dello Stato – fuori di qualsiasi logica di scontro, dal dovere di promuovere un chiaro pronunciamento, nella sola sede idonea, su questioni delicate di equilibri e prerogative costituzionali, ponendo così anche termine a una qualche campagna di insinuazioni e sospetti senza fondamento e al trascinarsi di polemiche senza sbocco sui mezzi di informazione. Non ho nulla da nascondere, ma un principio da difendere, di elementare garanzia della riservatezza e della libertà nell’esercizio delle funzioni di Capo dello Stato».
IL PRECEDENTE BERTOLASO. Un salto indietro, da Palermo a Firenze. Il precedente riguarda le telefonate intercettate dal Ros dei carabinieri, nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Firenze sugli appalti per il G8 del 2009. La voce del presidente della Repubblica finisce per due volte nei file registrati tra il 6 marzo e il 9 aprile 2009. Conversazioni che, in questo caso, non hanno alcun rilievo investigativo. All’altro capo del telefono c’è l’allora numero uno del Dipartimento della Protezione civile, Guido Bertolaso, ed è il suo il cellulare sotto controllo. Nel corso delle due telefonate Bertolaso e Napolitano parlano del terremoto che ha appena devastato l’Aquila. In quei colloqui non c’è, dunque, nulla che abbia a che fare con l’inchiesta sugli appalti, tuttavia i carabinieri li trascrivono lo stesso e sarà Repubblica, tre anni dopo, a darne conto ai propri lettori. Più o meno quanto è accaduto a Palermo, con i colloqui tra Napolitano e Mancino. Come oggi, anche allora il Presidente fu intercettato indirettamente. Ma allora, a differenza di oggi, proprio a nessuno al Quirinale, Napolitano compreso, ha mai sfiorato l’idea di sollevare un conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale. Perché? Che le conversazioni con Mancino, a differenza di quelle con Bertolaso, esclusa la rilevanza penale, possano provocare imbarazzo per la prima carica dello Stato?
COSSIGA E GLADIO. Uno scontro istituzionale che non manca di precedenti illustri. Era l’autunno del 1990 e il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, stava incontrando la Regina Elisabetta a Londra. Una telefonata, da Roma, lo avvisò che un giudice veneziano, Felice Casson, voleva interrogarlo perché, indagando sulla strage di Peteano (31 maggio 1972), si era ritrovato a fare i conti con una struttura paramilitare segreta, meglio nota come “Gladio”. Cossiga conosceva bene l’argomento, nel 1966 da sottosegretario alla Difesa aveva ricevuto la delega a sovrintendere all’attività dell’organizzazione voluta dalla Nato durante la Guerra fredda per fronteggiare un’eventuale invasione sovietica in Europa. Casson, che ha tra le mani i verbali di un pentito che mostra di sapere molto su “Gladio”, vuole vederci chiaro e la sua inchiesta finisce ben presto su tutte le prime pagine dei giornali. Lo scontro con il Quirinale è inevitabile con Cossiga che arriverà ad autodenunciarsi, chiedendo di essere indagato per cospirazione politica. Il 30 ottobre cominciano a circolare i primi nomi degli appartenenti alla “rete clandestina”, il 3 novembre esplode la polemica contro il Colle e cinque giorni dopo il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, interverrà in Senato rivendicando la legittimità di “Gladio”. Casson non molla, chiede la disponibilità del presidente della Repubblica a testimoniare sulla strage di Peteano e su «altri fatti eversivi dell’ordine costituzionale». Ma Cossiga, alla fine, sarà sentito solo dal Comitato di controllo sui servizi segreti.
IL CRACK SASEA. E’ il 1993 e al Quirinale c’è un altro presidente, Oscar Luigi Scalfaro. A Milano la Guardia di finanza, indagando sulla bancarotta della finanziaria svizzera Sasea Holding, sta compiendo una serie di delicati accertamenti e il 12 novembre 1993, intercettando l’utenza telefonica dell’allora amministratore delegato della Banca popolare di Novara, Carlo Piantanida, s’imbatte nella voce del presidente della Repubblica. La telefonata finirà sui giornali molto tempo dopo, nel febbraio del 1997, e sarà Il Giornale a riferirne i contenuti, che in questo caso furono trascritti e depositati tra gli atti del procedimento per la bancarotta della Sasea. La polemica è inevitabile. Il senatore a vita Francesco Cossiga presenta un’interpellanza al ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, che è costretto a rispondere. Il caos è simile allo scontro tra Napolitano e la Procura di Palermo. Sarà lo stesso procuratore Francesco Saverio Borrelli a confermare che i contenuti di quella telefonata erano privi di qualsiasi rilevanza penale e che la voce del presidente era stata intercettata, anche in questo caso, indirettamente. Flick intervenendo al Senato dirà poi che i magistrati non violarono alcuna norma, «anche se la procedura seguita non appare in linea con i principi della Costituzione a tutela del Presidente della Repubblica». L’allora Guardasigilli, tuttavia, non ravviserà nella loro condotta «aspetti di macroscopica inosservanza delle disposizioni di legge o di loro abnorme interpretazione». Dalla parte del Colle si schierò il Costituzionalista Leopoldo Elia, secondo il quale a tutela del Capo dello Stato esiste l’articolo 277 del codice penale che ne difende «la libertà psichica per evitare che un certo tipo di assedio, di accuse e insinuazioni possano ledere la libertà e l’indipendenza di decisione del presidente della Repubblica stesso». Mentre sempre secondo Flick il divieto di intercettare il Capo dello Stato doveva essere chiaramente esteso anche agli “ascolti” indiretti, con il divieto «altrettanto assoluto» di trascrivere e depositare le telefonate eventualmente intercettate. Oggi, invece, sulla questione sollevata da Napolitano la Corte Costituzionale dovrà dire l’ultima parola.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 2 agosto 2012 [pdf]

sonia alfano«In Europa non c’è un solo Paese immune al crimine organizzato. Combatteremo le mafie ovunque, e anche i “colletti bianchi” avranno le ore contate». Sonia Alfano, da Strasburgo, dichiara guerra a cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. L’europarlamentare dell’Idv, 41 anni, figlia del giornalista Beppe Alfano, ucciso dalla mafia nel ’93, è stata appena eletta alla presidenza della Commissione antimafia europea. Un organismo che in diciotto mesi dovrà convincere tutti i Paesi membri che la criminalità organizzata non è solo una piaga italiana. Lo farà - come spiega a Il Punto - esportando la nostra legislazione antimafia, e, forse, creando anche una super procura.
Onorevole Alfano annunciando la sua nomina ha parlato del raggiungimento di un primo traguardo. E’ stato così difficile far capire all’Europa che la criminalità organizzata riguarda tutti e non solo l’Italia?
«Mi sento di dire che è stata una difficoltà giustificata. Nel senso che per tantissimi anni, in nessun atto ufficiale europeo, è mai comparso il termine mafia, né tantomeno crimine organizzato. Se a questo aggiungiamo il fatto che in tutti gli altri Paesi europei c’è la convinzione che le mafie siano un problema prettamente italiano, come anche in Italia in molti sono convinti che questo problema riguardi solo il Sud, ci rendiamo conto che far ben comprendere il problema è stato difficoltoso. In Europa s’ignorava la reale minaccia, pur essendo ben noto il radicamento della ‘ndrangheta in Germania, di cosa nostra in Olanda, in Belgio e in Francia e della camorra in Spagna. I miei colleghi hanno compreso tutto questo parlando con i loro magistrati».
Che poteri avrà la Commissione?
«Intanto farà delle audizioni con esponenti delle autorità giudiziarie e del sistema investigativo europeo per tracciare un quadro e avviare un monitoraggio rispetto alla capacità di radicamento delle varie mafie in tutti e 27 i Paesi. Già lo scorso anno, attraverso il contributo di una serie di magistrati italiani, spagnoli e canadesi, abbiamo iniziato a comprendere come sia stato possibile che le organizzazioni criminali si radicassero nei vari Paesi europei. E abbiamo la certezza che non c’è un solo Paese immune».
La Commissione che presiede come collaborerà con l’autorità giudiziaria?
«Ascolteremo i vari organi che si occupano di contrasto al crimine organizzato e saranno loro a dirci, dal punto di vista legislativo, quali sono le necessità. Tra le priorità c’è sicuramente l’introduzione del reato di associazione mafiosa, ma anche del carcere duro, oltre a un testo unico antimafia da consegnare alla Commissione europea e agli altri stati membri».
Vi avvarrete di Eurojust ed Europol o pensate di istituire una super procura?
«L’obiettivo di diversi esponenti è quello di creare la figura del procuratore europeo antimafia. Sono fermamente convinta che l’indipendenza della magistratura dal potere politico debba essere la condicio sine qua non. Quindi la direzione è quella anche per noi, ma prima vogliamo capire da chi dipenderà questa procura. Di fatto abbiamo già attivato una serie di collaborazioni molto proficue, non solo con Europol ed Eurojust, ma anche con l’Interpol, con l’Olaf, con la Corte dei Conti europea, con l’Unodc e con tutti gli organismi europei che già si occupano di mafie. Quello che possiamo fare come Commissione, e non è poco, è agevolare la cooperazione tra questi organismi».
La nostra legislazione antimafia è davvero la migliore al mondo?
«L’Italia, oltre ad avere la migliore legislazione, è il Paese che ha pagato di più in termini di vite umane. Ma è ovvio che anche nel dispositivo legislativo italiano ci sono delle lacune. Penso alla norma che tutela i testimoni di giustizia, che è la stessa che tutela i collaboratori. I testimoni, con tutto rispetto per i pentiti, sono cosa ben diversa. Stiamo limando alcune sbavature, si pensi anche al fatto che l’Italia è l’unico Paese al mondo che fa una distinzione tra vittime di mafia e vittime del terrorismo».
Ha annunciato che dichiarerà guerra anche ai “colletti bianchi”…
«Guerra senza frontiere e sconti per nessuno. Quello che è accaduto in Italia non deve accadere mai più. Perché se è stato possibile legalizzare e istituzionalizzare cosa nostra e la camorra, è avvenuto perché c’è stato chi dall’esterno ha materialmente reso possibile l’ingresso del crimine organizzato nelle istituzioni e nella politica. Non sarà più possibile. I fiancheggiatori, i prestanome, e coloro che si sono prestati a far sì che le mafie diventassero linfa vitale per una parte deviata delle istituzioni sappiano che hanno i giorni contati».
Per fare tutto questo non sono pochi diciotto mesi?
«In meno di un anno abbiamo dimostrato che quando c’è la volontà si procede in maniera assolutamente lineare e spedita e con degli obiettivi condivisi da tutti a prescindere dagli schieramenti politici. Tutto questo era inimmaginabile fino a un anno fa. Ma abbiamo dimostrato che porre come obiettivo la risoluzione di un problema che riguarda la sicurezza e la libertà di 500 milioni di cittadini non è un’impresa impossibile».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 17 maggio 2012 [pdf]

antonio ingroia«Per combattere la criminalità organizzata, superando confini e ostacoli, occorre un testo unico europeo delle leggi antimafia e una super procura». Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, accoglie con soddisfazione la nomina di Sonia Alfano alla presidenza della Commissione antimafia europea, ma, rispondendo alle domande de Il Punto, avverte: «Non sarà facile fare tutto questo in poco tempo, perché non credo ci siano ancora le condizioni politiche». E sulle minacce di morte appena ricevute, che l’hanno costretto a rinunciare a partecipare a un evento in ricordo di Paolo Borsellino: «Con questo clima di odio c’è il rischio che qualche testa calda se ne approfitti».
Dottor Ingroia, partiamo dalla nomina dell’onorevole Sonia Alfano alla presidenza della Crim, è una grande opportunità non crede?
«E’ certamente un’occasione importante. Ed è un’opportunità per tutta l’antimafia avere un presidio europeo, un punto di riferimento forte. Dobbiamo guardare sempre di più verso gli snodi istituzionali, dove si può organizzare un’offensiva contro il potere mafioso che non sia più confinata dentro il territorio nazionale, ma che sia transnazionale. L’Europa deve diventare uno spazio giuridico antimafia, e per diventarlo penso che la Commissione antimafia europea sia un ottimo strumento. Deve essere, soprattutto, un’occasione per tutti».
Quali ostacoli incontra un magistrato italiano quando si trova a indagare sulla criminalità organizzata fuori dai confini nazionali?
«Ne incontra mille, spesso anche insormontabili. Innanzitutto ostacoli rappresentati da linguaggi diversi, e non mi riferisco agli idiomi linguistici, ma a quelli giuridici. Non sempre si è compresi quando si parla di cosa nostra, di camorra o della ‘ndrangheta. Siamo di fronte a un fenomeno che non è solo locale, o al massimo regionale, e questo concetto, a volte, è difficile da spiegare anche in Italia, e ovviamente ancor più in Europa. Non c’è una diffusa consapevolezza, e questo è uno degli ostacoli principali. Poi ci sono ostacoli pratici, legislativi, che sono una conseguenza delle difficoltà linguistiche cui accennavo, non essendoci sufficiente consapevolezza della dimensione transnazionale della mafia. Ogni Paese è attrezzato con strumenti giuridici modellati sulla criminalità locale che non riguardano la criminalità transnazionale, e quindi quello che è reato in Italia non lo è altrove. E’ il caso, classico, dell’associazione di tipo mafioso, oppure i presupposti che consentono di sequestrare e confiscare un bene in Italia, in base al sistema delle misure di prevenzione patrimoniali, che non sono riconosciute in altri Paesi europei, e questo, naturalmente, rende difficoltosa anche la caccia ai patrimoni mafiosi. Quello che manca è una piattaforma comune, che si costruisce solo passando attraverso una fase di omogeneizzazione delle legislazioni nazionali e attraverso sempre più efficaci ed efficienti strumenti di lotta transnazionali».
Immagina una super procura o, comunque, più coordinamento tra le forze di polizia?
«Credo occorra potenziare gli strumenti che già ci sono. Eurojust ed Europol svolgono questa funzione, cioè agevolano gli scambi d’informazioni tra stati, ma non hanno ancora quella forza e quel potere vincolante che ha, per esempio, la Procura nazionale antimafia in Italia. Bisogna esportare i modelli virtuosi italiani in ambito europeo. Modellare, per esempio, Eurojust sul modello della Procura nazionale antimafia, se non si vuole creare una super procura. Occorre creare un luogo dove si elaborino strategie comuni per affrontare a livello europeo la criminalità organizzata».
Pensa all’introduzione di un testo unico antimafia?
«Certamente possiamo dire che l’obiettivo finale, il traguardo da raggiungere, è l’adozione di un testo unico europeo delle leggi antimafia, così come la creazione di una procura europea antimafia. Ma non credo ci siano le condizioni politiche per raggiungere questi due obiettivi in tempi rapidissimi, e su questo bisogna lavorare creando i presupposti».
Recentemente è stato costretto, per motivi di sicurezza, ad annullare la partecipazione ad un incontro pubblico, a Teramo, e ha parlato di minacce «frutto di un’opera costante di delegittimazione».
«Quando si crea, con questa compagna di denigrazione, costante e martellante, questo humus di odio e di falsa etichettatura, offendendo il valore principale di un magistrato, cioè la sua imparzialità, il rischio che qualche testa calda, o qualche fanatico, se ne approfitti c’è. Occorre maggiore senso di responsabilità da parte di tutti, soprattutto dentro le istituzioni. Sono state parole al vento per anni, speriamo che, alla vigilia di quella che si chiama III repubblica, un po’ di senso di responsabilità possa finalmente tornare in questo Paese».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 17 maggio 2012 [pdf]