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Solo lui conosceva quanti e quali erano gli indicibili segreti di Stato che, alla fine, si è portato fin dentro la tomba. Francesco Cossiga, l’ex tutto, che non a caso in Senato sedeva nello scranno numero 007, se n’è andato a modo suo, il 17 agosto, quasi sbattendo la porta in faccia a tutti e lasciando, all’Iddio, il compito di proteggere l’Italia. Del resto in quale altro modo interpretare la scelta di tenere fuori dal suo funerale tutte le cariche dello Stato, nessuna esclusa. Tranne pochi altri, come loro, quelli senza volto e senza nome: i suoi fedeli figliocci dei corpi speciali.

E i segreti? I segreti - cioè tutto quello che ancora non sappiamo su più o meno mezzo secolo di storia repubblicana - se li è portati via con sé. Forse, visto il soggetto, quelli non li ha rivelati proprio a nessuno: perché un segreto di Stato è tale, è tale deve rimane. O magari, come amano pensare in rete gli amanti della dietrologia, quelle quattro lettere indirizzate alle più alte cariche dello Stato contenevano anche quelli. Oppure i suoi fedeli “apparati” dell’intelligence, un attimo dopo, su sua precisa indicazione, hanno raccolto il suo archivio e se lo sono portato via. Perché, spie e segreti, erano sì la sua passione, ma anche la sua ossessione. ...continua a leggere "Storia di un picconatore"

Dfd è un acronimo, che di per sé non dice nulla. Nell’ambiente giudiziario, invece, in particolare nelle security delle compagnie telefoniche, queste tre lettere sono assai note.

È un apparecchio elettronico, che assomiglia a un server, acronimo di “Distributore fonia dati”. Dove c’è qualcuno che intercetta c’è sempre un Dfd a fare il suo lavoro. È il sistema che permette - tuttora - di trasferire le telefonate “bersaglio” di intercettazione da parte dell’autorità giudiziaria dalle centrali telefoniche alle procure.

Dopo il Dfd, a cascata, ci sono i registratori, cioè le apparecchiature installate nelle sale di ascolto dei tribunali. I Dfd sono prodotti dalla Urmet di Torino. La descrizione del loro funzionamento è in rete: «Costituisce la soluzione necessaria e sufficiente a trasferire al punto di ascolto di una intercettazione, oltre alla fonia, i dati di tracciamento che consistono essenzialmente nell’identificazione del numero telefonico chiamato, di quello chiamante oltre ad altri dati accessori». In sostanza quando la centrale rileva una chiamata, da e per il telefono “monitorato”, il Dfd la spedisce alla procura interessata. Tra le carte dell’inchiesta Telecom-Pirelli si parla molto dei distributori Urmet. ...continua a leggere "Ghioni: “Stilai un report sul rischio di accessi non autorizzati”"

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La domanda, trent’anni dopo, è sempre la stessa: perché?
Il 27 giugno 1980, un minuto prima delle 21, precipitava dal cielo di Ustica al fondo del Mar Tirreno un DC-9 della compagnia Itavia, in volo da Bologna a Palermo con a bordo ottantuno passeggeri. Sono passati trent’anni dalla più grave tragedia dell’aviazione italiana, subito divenuta il caso Ustica.
Quella notte la storia comincia con un aereo che scompare dagli schermi radar e i suoi passeggeri (64 adulti e 13 bambini) e l'equipaggio (2 piloti e 2 assistenti di volo), inghiottiti dal mare. Immediate le tesi su quello che doveva sembrare a tutti i costi un incidente, una sciagura del tutto casuale, forse un caso remoto – ricordate? - di cedimento strutturale. Mille ipotesi, mille inchieste, il silenzio di tanti, l’impunità e il mistero che sempre più avvolgeva quello strano incidente. Invece quella sera, lassù, c’era la guerra: questo hanno raccontato agli italiani i magistrati che hanno indagato sulla Strage di Ustica. Lo hanno detto anche ai familiari delle vittime, senza però lasciare loro la possibilità di gridare “assassino” a qualcuno, perché, riassumendo il mare di carte giudiziarie in cui è scritta questa storia, restano ancora oggi “ignoti gli autori del reato”. Loro, i passeggeri e l'equipaggio, affrontarono quel volo da inconsapevoli vittime di una scellerata Ragion di Stato. Non sapevano di certo che non sarebbero mai atterrati e che la loro fine sarebbe diventata un giallo. Lungo trent’anni. ...continua a leggere "Ragioni di Stato"

Ormai a Palermo i magistrati dell’antimafia sono abituati a convivere con i pezzi mancanti e le prove misteriosamente scomparse. Ogni inchiesta ricorda almeno un caso del genere e recentemente anche un cronista di Repubblica, Salvo Palazzolo, ha provato a elencarli in un libro. Ma a quelli finora noti se ne è aggiunto un altro, meno conosciuto, rispetto, per esempio, all’agenda rossa sottratta dalla borsa del giudice Paolo Borsellino il giorno che saltò in aria in via d’Amelio.

...continua a leggere "Pezzi mancanti nel puzzle Ciancimino"