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Abbandonati dallo Stato ed uccisi da Cosa Nostra

Li ho visti da vivi e li ho visti da morti. Ho conosciuto molti dei personaggi che hanno incrociato le loro esistenze tormentate, i pochi amici, i tanti nemici, il branco degli indifferenti. Prima di iniziare a scrivere, ho raccolto vecchie istruttorie e qualche sentenza. Ma poi ho provato un disagio profondo a leggere sempre gli stessi nomi, gli stessi mandanti delitto dopo delitto e strage dopo strage. Non sono arrivato in fondo. Non ce l’ho fatta. Sapevo già come finiva la storia di questi uomini soli». Attilio Bolzoni, giornalista de La Repubblica, esperto di mafia, nella premessa del suo ultimo libro, “Uomini soli” (Melampo Editore, 232 pagine 16,00 euro), accoglie così i suoi lettori. Il suo saggio è quasi un trattato di storia contemporanea, è un racconto collettivo su quattro uomini, lasciati soli dalle istituzioni e uccisi da Cosa Nostra. È la storia di Pio La Torre, il primo parlamentare (del Pci) ucciso dalla mafia, sparato giù a Palermo, il 30 aprile 1982. Lo ammazzano, scrive Bolzoni, perché, probabilmente, «aveva capito che la Sicilia stava cambiando padroni». Lo uccidono perché era pericoloso, tenace, intransigente. Insomma era uno «che non si piegava mai» e che parlava due lingue, il siciliano e l’italiano. Di Pio La Torre, resta una legge, la Rognoni- La Torre, uno strumento decisivo nella lotta alla mafia, nata grazie al suo sacrificio e a quello di altri uomini rimasti soli, come lui. Quattro mesi dopo tocca a un altro uomo dello Stato, a un generale dei carabinieri che non piace al potere. Quando ammazzano Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie, Emanuela Setti Carraro, la sera del 3 settembre 1982, a Palermo in via Isidoro Carini, i detenuti dell’Ucciardone brindano con lo champagne. È il cadavere – scrive Attilio Bolzoni – di un generale «fatto a pezzi dallo Stato, diventato troppo ingombrante ». «Una leggenda per i suoi carabinieri, un mito della lotta al terrorismo degli Anni Settanta, una minaccia permanente per l’Italia che sopravvive fra patti e ricatti». Anche lui, giù a Palermo, era un uomo solo. Come Giovanni Falcone, il giudice simbolo, l’uomo che faceva tremare la mafia. Quando muore, a Capaci il 23 maggio 1992, insieme a sua moglie, Francesca Morvillo, e agli agenti della sua scorta, anche lui era rimasto solo. Falcone – scrive ancora Bolzoni – era il magistrato «più amato e più odiato d’Italia». «Detestato, denigrato, guardato con sospetto dagli stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati dinamitardi e tranelli governativi. Per tredici lunghissimi anni provano ad annientarlo in ogni momento e in tutti i modi. Per quello che fa e per quello che non fa». Cinquantasei giorni dopo tocca al suo erede, all’uomo che ne ha appena raccolto il testimone, Paolo Borsellino. La morte lo attende il 19 luglio, siamo ancora giù a Palermo, in via Mariano D’Amelio. Alle 16.58 e 20 secondi, narra Bolzoni raccontando la storia dell’ultimo uomo solo, il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. Un attentato libanese. «Fumo, urla, fiamme, sirene, terrore. Cinquantasei giorni dopo Capaci, hanno ammazzato anche Paolo Borsellino». Gli uomini soli di Attilio Bolzoni, come Borsellino e Falcone, sapevano che li avrebbero fermati, prima o poi. «Facevano paura al potere». Perché erano italiani «troppo diversi e troppo soli per avere un’altra sorte». «Una solitudine generata non soltanto da interessi di cosca o di consorteria. Ma anche da meschinità più nascoste e colpevoli indolenze, decisive per trascinarli verso una fine violenta. Vite scivolate in un cupo isolamento pubblico e istituzionale». Trent’anni dopo la morte di Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, e vent’anni dopo quella di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non sappiamo ancora chi li ha voluti morti, ma, di certo, sappiamo che erano uomini soli.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto [pdf]

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