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Potrebbe essere l’autunno più caldo degli ultimi vent’anni. È la storia che torna a presentare il conto ai già provati protagonisti della Prima Repubblica, con un rigurgito di veleni e sospetti che arriva da lontano. E’ lo Stato che interroga se stesso, come tante volte è accaduto in Italia, chiedendo ai suoi apparati di sollevare il coperchio di una pentola che bolle ancora. Il 29 ottobre, giù a Palermo, un giudice, Piergiorgio Morosini, dovrà posare gli occhi sui 120 faldoni che compongono l’inchiesta sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e la Mafia e decidere se mandare a processo – come chiede la procura – i 12 indagati. Tutti nomi eccellenti, sia dentro Cosa nostra sia dentro i palazzi del potere. E in quelle carte c’è abbastanza per rimettere tutto in discussione. Vent’anni dopo quel maledetto Novantadue, l’anno delle stragi, del delitto Lima (12 marzo), di Capaci (23 maggio) e via D’Amelio (19 luglio). E’ lo scenario nel quale, secondo i magistrati di Palermo, si mette in moto e va in scena la trattativa. Da allora si cercano ancora verità e risposte. Quello che non sappiamo, la verità sull’agguato a Paolo Borsellino e molto altro, il ruolo della politica e di chi, nell’ombra, si occupava del lavoro sporco, potrebbe emergere da questo rompicapo. E’ il tentativo dei magistrati Antonio Ingroia, Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, che l’11 giugno hanno sottoscritto l’avviso di chiusura delle indagini preliminari e successivamente chiesto il giudizio, a vario titolo, per dodici tra politici, militari e mafiosi. Tra loro ci sono i boss Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Giovanni Brusca, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Gli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino. E poi, il testimone, Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco mafioso di Palermo, Don Vito, indagato per concorso in associazione mafiosa e calunnia (ai danni dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro). ...continua a leggere "Amnesie di Stato"

mancino-nicola-big0«Dopo la strage di Capaci era forte la preoccupazione che lo Stato non facesse tutto il possibile per contrastare Cosa Nostra. Fu per questo motivo che già il 1° luglio 1992 io e Paolo Borsellino ci recammo al Viminale per incontrare il ministro Mancino al quale volevamo fare gli auguri per il nuovo incarico e cogliere l’occasione per chiedergli quali fossero le reali intenzioni dello Stato nel contrasto a Cosa Nostra». È il 13 gennaio 2011 e il pm Vittorio Aliquò ha un’immagine molto chiara ricostruendo, davanti ai colleghi della Procura di Palermo, quanto accadde 18 giorni prima della strage di via D’Amelio. Era a Roma con Borsellino, per interrogare il pentito Gaspare Mutolo (che confermerà la circostanza in più sedi), e insieme si recarono al Viminale a incontrare il nuovo ministro dell’Interno. Ma Nicola Mancino, di quell’incontro, non ricorda nulla. «Ho sempre escluso – dirà il 1° aprile 2011 rispondendo alle domande del capo della Procura di Palermo, Francesco Messineo – di avere avuto un colloquio con il giudice Borsellino e in interrogatori da me resi, ho sempre detto: non escludo, però, di avergli potuto stringere la mano, così come ho fatto con tantissimi funzionari il giorno del mio insediamento al Viminale, che è avvenuto nel pomeriggio del primo luglio 1992. Posso anche avergli stretto la mano, ma non conoscendo fisicamente il giudice Borsellino, non posso però escludere che, passando per i corridoi, stringendogli la mano, ma non ho avuto nessun colloquio con il giudice Borsellino». Appare davvero singolare che il ministro dell’Interno, a poche settimane dalla strage di Capaci, non conosca fisicamente il simbolo della lotta antimafia, il giudice che in quel momento in Sicilia sta rischiando più di chiunque altro la vita. Ed è lo stesso Mancino che in un primo momento nega di aver mai appreso, in quello stesso periodo, dell’esistenza di un dialogo tra pezzi dello Stato e i boss. «Se ne fossi venuto a conoscenza», dice l’ex vicepresidente del Csm ai pm palermitani Ingroia e Di Matteo - che indagando sulla trattativa tra Stato e Mafia lo hanno appena iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza - «l’avrei respinto e avrei denunciato la cosa al capo dello Stato». Poi il 24 febbraio, nel corso di un’udienza del processo al generale Mori, Mancino cambia versione: «Martelli mi parlò genericamente di attività non autorizzata del Ros, ma non capii perché lo diceva a me e non alla Procura». E tutto questo, dice Martelli, avvenne prima dell’eccidio di via D’Amelio. Per Ingroia e Di Matteo, perciò, qualcuno sta mentendo. A tirare in ballo il potente ex ministro democristiano c’è anche il pentito Giovanni Brusca, che lo indica come «terminale» dello scellerato accordo tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra, ma anche Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, che sostiene da tempo che i ministri Rognoni e Mancino fossero a conoscenza della trattativa. L’iscrizione di Mancino nel registro degli indagati era nell’aria. «Il teorema che lo Stato, e non pezzi o uomini dello Stato, abbia trattato con la mafia – dice commentando la notizia – è vecchio di almeno venti anni, ma non c’è ancora straccio di prova che possa confortarlo di solidi argomenti». Insieme a Mancino, a Palermo, ci sono altri 8 indagati: i generali Mori e Antonio Subranni, l’ex capitano Giuseppe De Donno, l’ex ministro Dc, Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano e Nino Cinà. Sempre lo stesso Mancino - che nega la circostanza - sarebbe stato tra coloro che nel ‘93 sostennero che il 41 bis andava ammorbidito. Già nel settembre del ‘92, l’ex ministro dell’Interno pare fosse al corrente del fatto che la strategia di Cosa Nostra doveva proseguire con il compimento di altre stragi «in continente». Ed è ancora Mancino, nel dicembre del ‘92, ad anticipare alla stampa che da li a breve sarebbe stato catturato Riina. Coincidenze?

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 21 giugno 2012 [pdf]

genova01GNei corridoi del Viminale lo chiamano “effetto Diaz”. E’ la spada di Damocle che incombe sulla polizia di Stato e che, da qui a qualche mese, potrebbe condizionare ogni decisione, comprese nomine e avvicendamenti ai vertici (anche dei servizi segreti). E’ tutto legato agli esiti dell’ultimo processo, quello per la brutta storia dell’irruzione alla scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001, che vede imputati alcuni dirigenti della polizia di primissimo livello. Dovrebbe concludersi a metà giugno, in Cassazione (le udienze sono fissate dal giorno 11 al 15), ma su di esso incombe la prescrizione dei reati (quello di calunnia lo è già, mentre per il falso scatterà a 12 anni e mezzo dal fatto). In Appello, nel maggio 2010, ribaltando la sentenza di primo grado del tribunale di Genova, i giudici avevano condannato i 25 imputati a complessivi 98 anni e tre mesi di reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Tra questi spiccavano - e spiccano ancora oggi in attesa del verdetto della corte suprema - i nomi di Francesco Gratteri, ex capo del Servizio centrale operativo (attuale direttore centrale della polizia criminale, assolto in primo grado e condannato a 4 anni), Gilberto Caldarozzi, ex vicecapo dello Sco (attuale capo dello Sco, assolto e poi condannato a 3 anni e 8 mesi), Vincenzo Canterini, ex comandante del primo Reparto mobile di Roma (oggi ufficiale di collegamento dell’Interpol a Bucarest, assolto e condannato a 5 anni) e Giovanni Luperi, ex vicedirettore dell’Ucigos (oggi capo Dipartimento analisi dell’Aisi, assolto e condannato a 4 anni). Erano tutti presenti a Genova la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 e secondo le motivazioni della sentenza d’appello, in base all’articolo 40 del codice penale, avevano l’obbligo di impedire le violenze che si consumarono durante la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz (93 arresti e 82 feriti). Il blitz, ordinato dagli allora vertici della polizia, fu definito da uno degli imputati, Michelangelo Fournier, all’epoca vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma (in appello prosciolto per intervenuta prescrizione), «una macelleria messicana». Odissea terminata per altri due imputati eccellenti: l’ex capo della polizia e attuale direttore del Dis, Gianni De Gennaro, e l’allora capo della Digos di Genova, oggi dirigente della Polfer a Torino, Spartaco Mortola, assolti in via definitiva nel novembre scorso, perché il fatto non sussiste. Quest’ultimi erano accusati (sempre per i fatti della Diaz) di aver istigato alla falsa testimonianza l’ex questore del capoluogo ligure, Francesco Colucci. L’impatto del prossimo verdetto della Cassazione potrebbe condizionare, e non di poco, il valzer di nomine riguardanti i vertici di tutti gli uffici centrali della polizia, compreso lo Sco e la poltrona più alta, quella del capo, al momento occupata dal prefetto Antonio Manganelli. I nomi in corsa - come già anticipato da Il Punto - sono diversi. Tra i più quotati ci sono quelli di due prefetti-poliziotti: Giuseppe Caruso, già questore a Roma e Palermo, di cui è stato anche prefetto e attuale direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla criminalità organizzata, e Giuseppe Pecoraro, attuale prefetto di Roma la cui candidatura sarebbe fortemente caldeggiata dal Pdl. Ma in corsa per occupare il posto di Manganelli ci sarebbero anche due investigatori di lungo corso: Nicola Cavaliere, oggi vicedirettore operativo dell’Aisi, e l’attuale capo del Dipartimento della protezione civile, già direttore del Sisde e prefetto de L’Aquila dopo il sisma del 6 aprile 2009, Franco Gabrielli. L’“effetto Diaz” potrebbe condizionare anche la carriera dell’attuale direttore dello Sco, Gilberto Caldarozzi, e quella di Francesco Gratteri, attuale direttore centrale del Dipartimento anticrimine. Il governo, sentito il Viminale, tra maggio e giugno potrebbe mettere mano alle nomine, in concomitanza sia con la sentenza della Diaz sia con la scadenza dei mandati dei direttori di Aisi e Aise, Giorgio Piccirillo e Adriano Santini.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 29 marzo 2012 [pdf]

Qui radio Viminale: movimenti in vista ai vertici dei servizi segreti, e forse anche della polizia. Mentre nella Capitale arrivano da Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, nominato dal Csm procuratore capo a Roma, e il super-poliziotto che arrestò il boss Bernardo Provenzano, Renato Cortese, che da capo della Squadra Mobile reggina approda al Servizio centrale operativo. Tuttavia la notizia che in queste settimane sta facendo discutere è un’altra, e riguarda un altro super-investigatore: il prefetto, già capo della polizia, Gianni De Gennaro. Il capo del Dis, il potente Dipartimento per le informazioni e la sicurezza che sovrintende l’attività dei due Servizi segreti, potrebbe lasciare il suo incarico in cambio di una nomina ministeriale a delegato per la sicurezza, oppure, ipotesi meno probabile e già vecchia, per approdare ai vertici del gruppo Finmeccanica. La notizia è tornata ad affacciarsi nei giorni scorsi, e a quanto pare sarebbe stato proprio lo stesso De Gennaro, in vista della scadenza del suo mandato iniziato nel maggio del 2008, a comunicare a Palazzo Chigi la scelta di abbandonare il vertice dei Servizi.
Al suo posto potrebbe arrivare Antonio Manganelli, attuale capo della polizia e anch’egli in procinto di lasciare la poltrona. Nessuna novità né avvicendamenti in vista, per quanto riguarda, invece, le direzioni delle due agenzie di spionaggio. A capo dell’ex Sisde, oggi Aisi, dovrebbe rimanere il generale dei carabinieri, Giorgio Piccirillo, in carica dal 2009. Mentre alla guida dell’ex Sismi, oggi Aise, resta il generale dell’Esercito, Adriano Santini, nominato da Palazzo Chigi nel febbraio del 2010. L’altra novità, come accennato, potrebbe riguardare direttamente la polizia di Stato. Antonio Manganelli, in carica dal giugno del 2007, secondo indiscrezioni, sarebbe in procinto di lasciare il proprio incarico per prendere il posto di De Gennaro al Dis. E in lizza verso la direzione generale del Dipartimento della pubblica sicurezza ci sarebbero già diversi nomi. Innanzitutto i più quotati, due prefetti-poliziotti: Giuseppe Caruso, già questore a Roma e Palermo, di cui è stato anche prefetto e attuale direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla criminalità organizzata, e Giuseppe Pecoraro, attuale prefetto di Roma la cui candidatura sarebbe fortemente caldeggiata dal Pdl. Ma in corsa ci sarebbe anche l’attuale questore di Roma, Francesco Tagliente. Tra i papabili capi della polizia ci sono, inoltre, altri due prefetti, anche loro già investigatori di lungo corso: Nicola Cavaliere, oggi vicedirettore operativo dell’Aisi, e l’attuale capo del Dipartimento della protezione civile, già direttore del Sisde e prefetto de L’Aquila dopo il sisma del 6 aprile 2009, Franco Gabrielli. Il nome di Gabrielli, nel 2003 promosso sul campo al grado di Dirigente superiore della polizia per il contributo dato alle indagini sulle Nuove Brigate Rosse, è in pole position dopo lo scontro con il sindaco di Roma Alemanno sull’emergenza neve. Nel Pdl in molti scommettono che il numero uno della protezione civile sia in corsa per succedere a Manganelli, un sospetto che lo stesso Alemanno ha sollevato nel corso di una recente puntata di “In onda”, quando, rispondendo alle domande di Telese e Porro, ha detto che «anche Gabrielli deve prendere i voti». ...continua a leggere "Rimpasto di polizia"