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Samuele Donatoni
Samuele Donatoni

La verità sulla morte dell’ispettore del Nocs Samuele Donatoni dovrà emergere dai nuovi accertamenti disposti dal gip Massimo Battistini che il 7 dicembre scorso ha respinto la richiesta di archiviazione dell’inchiesta avviata dalla Procura di Roma sul conto di sette poliziotti che la notte del 17 ottobre 1997 parteciparono, a Riofreddo, all’operazione che doveva portare alla cattura dei sequestratori di Giuseppe Soffiantini.
Il procuratore aggiunto Pietro Saviotti ha sei mesi di tempo per fare piena luce su quanto avvenne quella notte di quattordici anni fa, e per farlo dovrà rimettere in discussione ogni cosa, a partire proprio da ciò che i colleghi di Donatoni raccontarono nell’immediatezza dei fatti.
E in questa brutta storia c’è un’unica certezza: Donatoni, lo dice una perizia e una sentenza passata in giudicato (quella di assoluzione del bandito Giovanni Farina), quella notte non fu colpito da una delle armi imbracciate dai sequestratori, bensì da una pistola in dotazione alla polizia, e il suo corpo fu spostato subito dopo quello scontro a fuoco.
Che le cose andarono così, e che Donatoni fu vittima del fuoco amico, ne è certo il giudice Mario Almerighi, che nel 2005, assolvendo Farina, insinuò per la prima volta il dubbio che la ricostruzione fornita dai vertici della polizia non era credibile. Almerighi, che a questo caso ha dedicato anche un libro (“Mistero di Stato” per Aliberti Editore), rispondendo alle domande di Notte Criminale torna a indicare l’unica strada percorribile per giungere alla verità: indagare sulla polizia.
Dottor Almerighi, quale potrebbe essere il motivo che spinse la Polizia di Stato a coprire una vicenda così grave con una serie di omissioni e inquinamenti delle prove ancora oggi poco spiegabili?
«E’ una domanda che può trovare risposta solo attraverso una nuova indagine. La Sezione della Corte d’Assise da me presieduta aveva il compito di accertare la colpevolezza o l’innocenza di Giovanni Farina nell’omicidio del povero Donatoni. Nel corso del processo sono emersi elementi delittuosi tesi all’inquinamento delle prove. Doverosamente tali elementi sono stati portati a conoscenza della Procura di Roma. La Corte d’Assise giudica. Il pubblico ministero fa le indagini. A ciascuno il suo per il rispetto delle regole».
Quasi al termine del dibattimento lei ordinò la riesumazione del corpo dell’ispettore Donatoni e una nuova perizia, cosa non la convinceva nella ricostruzione fornita dalla polizia e sostenuta anche dalla Procura?
«Già nel precedente processo il medico legale aveva sottolineato che il colpo d’arma da fuoco che attinse Donatoni era stato sparato dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra e da breve distanza. Invece, secondo la ricostruzione del primo processo, Donatoni si sarebbe trovato di fronte a Moro e a una distanza di circa 20 metri. Ma ciò che mi spinse a disporre una perizia furono soprattutto le fotografie delle oltre 50 macchie di sangue la cui origine si trovava a notevole distanza da dove la precedente sentenza aveva stabilito si trovasse Donatoni nel momento in cui fu colpito».
Fu l’agente Stefano Miscali, oggi l’unico a essere indagato per omicidio colposo, a sparare accidentalmente a Donatoni?
«Quello che è emerso dal mio processo in modo inequivocabile, grazie ad una perizia basata su dati scientifici, è che lo sparo che attinse Donatoni non fu sparato da Mario Moro né dagli altri imputati che furono condannati nel precedente giudizio».
E’ ragionevole pensare, vista la posizione delle tracce di sangue, che il corpo dell’ispettore fu spostato rispetto al punto dove avvenne lo scontro a fuoco?
«Come testimoniato da Nicola Calipari gli spari non avvennero soltanto in quel punto e le macchie di sangue, insieme ad altre emergenze processuali, hanno dimostrato che il corpo di Donatoni venne spostato. Ciò non solo è ragionevole, ma è provato com’è detto chiaramente nella sentenza che ha assolto Farina».
Fu un incidente, o ha avuto il sentore che ci fosse altro dietro la morte dell’ispettore Donatoni?
«Le sensazioni di un giudice non hanno alcuna rilevanza processuale. La ricostruzione della verità e le sentenze devono basarsi sulle prove e non certo su supposte dietrologie. Se non fu un mero incidente lo accerteranno le nuove indagini».

di Fabrizio Colarieti per Nottecriminale.it

piergiorgio morosiniAAA cercasi magistrati pronti a morire, anche di lavoro. A Santa Maria Capua Vetere, provincia di Gomorra, regno dei Casalesi, è stato pubblicato per due volte consecutive in un anno un bando per coprire 21 posti da magistrato, ma nessuno ha risposto. La pianta organica del Tribunale meno ambito d’Italia parla chiaro: in trincea dovrebbero esserci 94 toghe, ma ce sono solo 72, più il presidente. Negli ultimi sei anni 71 magistrati hanno chiesto di andare via, per l’eccessivo carico di lavoro, e ora il Csm pensa di tamponare l’emorragia – che rischia di paralizzare l’attività di sei sezioni penali in una terra dove si combatte la Camorra ogni giorno - inviando magistrati tirocinanti. Intanto 6 giudici e 2 sostituti procuratori hanno chiesto di essere trasferiti a Napoli, ma non ci stanno ad essere additati come fuggiaschi. Santa Maria Capua Vetere è l’emblema della “geografia giudiziaria”, classe 1861, che mette sullo stesso piano tribunali ormai inutili, ma a organico pieno, e altri sull’orlo del collasso, senza né mezzi né uomini e in prima linea in territori ad altissima densità criminale. Rispondendo alle domande de Il Punto, il giudice palermitano, Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica, la corrente progressista dell’Anm, lancia un appello: «Mettiamo attorno allo stesso tavolo i rappresentanti di politica, magistratura, avvocatura e pubblico impiego, per individuare le priorità alle quali dobbiamo dare necessariamente una risposta immediata».
Dottor Morosini, a Santa Maria Capua Vetere mancano all’appello 21 magistrati, il Csm sta provando a tamponare l’emorragia inviato “giudici ragazzini” per sostenere l’enorme carico di lavoro, siamo di fronte al collasso della giustizia che denunciate da anni?
«Direi che siamo di fronte a temi atavici della giustizia italiana, legati al fatto che la pianta organica dei tribunali e delle procure non è aggiornata rispetto alle esigenze che abbiamo in questo momento. Santa Maria Capua Vetere è una sede che si occupa di criminalità organizzata di stampo camorristico concepita in un’epoca in cui l’azione di contrasto nei confronti dei clan non era così incisiva, quindi, rispetto a questo problema, ci sono responsabilità anche da parte della politica». ...continua a leggere "Giustizia a costo zero"

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Samuele Donatoni
Samuele Donatoni

Settembre 1997. Giuseppe Soffiantini, imprenditore tessile bresciano, è nelle mani di un gruppo di banditi sardi da tre mesi, in tre lo hanno rapito nella sua villa di Manerbio il 17 giugno. I suoi figli lanciano un primo appello ai sequestratori, sono disponibili a pagare il riscatto e loro dettano le condizioni. Gli inquirenti decidono di effettuare un pagamento simulato e l’appuntamento è fissato per le ore 23 del 25 settembre in provincia di Savona. L’emissario, seguendo le indicazioni dei sequestratori, deve raggiungere il punto convenuto a bordo di un fuoristrada e, una volta nei pressi di Mortara (PV), attendere un segnale luminoso e poi un altro. La delicata operazione è affidata al Nucleo operativo centrale di sicurezza, il Nocs della polizia di Stato. L’emissario è uno di loro, il capo: Claudio Clemente. Il fuoristrada raggiunge la piazzola di sosta. Clemente e i suoi uomini sono pronti a consegnare la borsa e a far scattare la cattura. Il primo segnale arriva, il secondo no, l’operazione fallisce. Il 7 ottobre è lo stesso Soffiantini, in una drammatica lettera, a chiedere ai suoi familiari di pagare i 20 miliardi del riscatto: «Fate tutto il possibile e l’impossibile per pagare, diversamente non ci vedremo mai più». I rapitori tornano a farsi vivi. Il nuovo appuntamento è fissato per il 17 ottobre lungo la statale Tiburtina, all’altezza del bivio di Riofreddo, ai confini tra il Lazio e l’Abruzzo. Le modalità sono le stesse: l’emissario deve raggiungere il luogo stabilito, attendere un segnale luminoso, fermarsi in una piazzola e depositare le due borse contenenti il denaro. A condurre l’operazione è ancora il Nocs, l’emissario è di nuovo Clemente.
Riofreddo. Alle 21 il capo dei Nocs e una decina di suoi uomini sono quasi all’appuntamento. Clemente è a bordo di una Golf bianca, alla guida c’è un altro agente e altri due sono nascosti sul retro della vettura. L’intera operazione è registrata via radio e nella sala operativa della questura di Avezzano i vertici della Criminalpol seguono la consegna in diretta, tra loro c’è anche Nicola Calipari, il funzionario di polizia che sarà ucciso nel 2005 a Baghdad durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. ...continua a leggere "Caso Donatoni: ecco le voci della notte di Riofreddo"

soffiantiniE’ il 17 giugno 1997 quando Giuseppe Soffiantini, 62 anni, imprenditore tessile viene sequestrato nella sua villa di Manerbio in provincia di Brescia. Sono le 22:30 circa. I rapitori legano e imbavagliano la moglie, Adele Mosconi, e la chiudono in un sottoscala. La donna riesce a dare l'allarme molte ore dopo, la mattina del 18. Prima di andarsene con l'ostaggio, i banditi dicono alla donna: «Non ti preoccupare, te lo faremo ritrovare». Il pesante silenzio viene rotto il giorno dopo. Il 19 giugno il primo contatto dei rapitori e la richiesta di riscatto: 20 miliardi. I figli chiedono il silenzio stampa per favorire la trattativa e diffondono un appello: «Nostro padre è malato. Ha bisogno ogni giorno di una dose di Sintrom, un farmaco salvavita». La pista battuta dagli inquirenti parla di sequestratori sardi. Il 21 giugno viene ritrovata una Fiat Croma bruciata targata PG741074, risultata rubata il 10 giugno.
Venerdì 17 ottobre una squadra di agenti speciali guidata da Claudio Clemente, capo dei Nocs, è pronta ad entrare in azione. La banda aveva fissato un appuntamento a Riofreddo (Rm) per ricevere il pagamento del riscatto ma, al posto del mediatore della famiglia Soffiantini, si presentarono i Nocs. Inizia un conflitto a fuoco e sul bordo di una statale ai confini tra Lazio e Abruzzo l'ispettore Donatoni rimane ucciso. L'operazione fallisce.
Il 19 ottobre viene arrestato uno dei rapitori, Agostino Mastio, che inizia a collaborare con la polizia. Il giorno dopo, il 20 ottobre, i Nocs speronano e poi bloccano, sull'autostrada Roma-L'Aquila, la “Golf” sulla quale viaggiano quattro sequestratori: Mario Moro, Agostino Mastio, Giorgio Sergio e Osvaldo Broccoli. Uno dei quattro arrestati, Mario Moro, rimane gravemente ferito. Viene fermata anche Silvana Lippi, convivente di Moro, e il basista, Pietro Raimondi, di Manerbio.
Il 27 ottobre si fanno ancora vivi i rapitori. Con un altro messaggio chiedono 11 miliardi, questa volta in dollari. Ventitrè giorni dopo, il 19 novembre la famiglia Soffiantini riceve una lettera con un ultimatum (20 dicembre) per il pagamento del riscatto e, dentro un preservativo, in lembo dell’orecchio sinistro dell’ostaggio.
Il giorno dopo, 20 novembre, Carlo Soffiantini, figlio maggiore dell'industriale bresciano e l'avvocato di famiglia, Giuseppe Frigo, rompendo il silenzio stampa convocano giornali e tv per lanciare un messaggio ai rapitori: «Siamo pronti, abbiamo un canale aperto e i soldi, anche se non tutti quelli che chiedete. Fate presto».
26 novembre «Abbiamo i soldi e le mani libere. Aprite un canale con noi e vi consegneremo quanto abbiamo raccolto, ma prima vogliamo una prova "sicura e attuale" che il rapito sia ancora vivo».
Un altro disperato della famiglia Soffiantini ai sequestratori, letto dall'avvocato Giuseppe Frigo davanti alle telecamere della Rai. Il 12 dicembre la famiglia Soffiantini comunica ai banditi che i soldi sono stati raccolti, nonostante il blocco dei beni: «Abbiamo i soldi e le mani libere. Aprite un canale con noi e vi consegneremo quanto abbiamo raccolto, ma prima vogliamo una prova sicura e attuale che il rapito sia ancora vivo». Il 4 gennaio, durante l’Angelus, il Papa lancia un appello ai sequestratori chiedendo la liberazione di Soffiantini: «A proposito del bisogno di legalità e del rispetto dei diritti di ogni persona - dice Wojtyla - vorrei ricordare, come sono solito fare nella prima domenica di ogni nuovo anno, l'ingiustizia dei sequestri di persona. Rinnovo la mia solidale preghiera per le persone rapite e per i familiari, e faccio appello all' umanità dei colpevoli, perché liberino le vittime dei sequestri e liberino anche se stessi dai lacci del male, convertendosi all'Amore».
Il 13 gennaio 1998 muore Mario Moro. Di cinque giorni dopo invece, il 18 gennaio, l’ennesimo appello del Papa ai rapitori. Il 25 gennaio a ricevere un messaggio ed un altro brandello di orecchio di Soffiantini è il direttore del TG5, Enrico Mentana: «La legge non esclude la possibilità che il magistrato che conduce l'inchiesta, qualora ne veda l'esigenza, conceda l'autorizzazione al pagamento del riscatto».
Aveva scritto Soffiantini nella lettera resa pubblica durante il Tg5 della sera: «Io chiedo ai miei figli che paghino la mia salvezza». Aveva aggiunto: «Non lo chiedo al governo italiano e tantomeno ai giudici».
«Se uscirò vivo da questa esperienza citerò per danni e per causata mutilazione chi con irresponsabili atteggiamenti ha messo la mia vita in continuo pericolo di morte». 5 febbraio Roberto Spanò, Gip del tribunale di Brescia, autorizza il pagamento “controllato” a fini investigativi di 5 miliardi, per favorire l' individuazione e la cattura dei rapitori. Il giorno dopo, 6 febbraio i figli di Soffiantini lanciano un disperato messaggio agli organi di informazione «Silenzio o papà morirà».
Sono circa le nove di sera quando dopo 237 giorni Adele Mosconi sente al telefono la voce del marito: «Sono libero, venitemi a prendere».
E’ il 9 febbraio Giuseppe Soffiantini viene liberato a Impruneta, vicino Firenze.
Il 19 marzo vengono arrestati Maurizio Cecile e Roberto Sever, davanti banco Ambroveneto di Mareno di Piave dove avevano tentato di ripulire i soldi del riscatto. I due collaborano con la giustizia e si prestano ad una trappola dove, gli agenti, arrestano Puggioni e Sirigu. Due giorni dopo, il 21 marzo viene arrestato Giovanni Zizi, fratello di Francesco, il vivandiere della prigione di Montalcino.
Le accuse, secondo la procura di Brescia, sono di concorso in sequestro di persona e detenzione di arma da guerra clandestina. Ad intrappolare Zizi, infatti, è una pistola calibro 7.65 trovata in Calvana, nell’ultimo covo di Farina e Cubeddu.

di Fabrizio Colarieti e Marina Angelo per Notte Criminale (18 dicembre 2011)