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consultaLa decisione della Consulta, sul nodo delle intercettazioni dell’inchiesta della procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia, che hanno indirettamente coinvolto il presidente Napolitano, è arrivata e, come annunciato, va nella direzione auspicata dal Quirinale. «Deve ritenersi sussistente, allo stato, la materia di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte». Questa la linea tenuta dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza numero 218, a firma del presidente Alfonso Quaranta, con cui si è dichiarato ammissibile il ricorso promosso dal Colle nei confronti della Procura di Palermo.
LA POSTA IN GIOCO. «Per quanto attiene all’aspetto soggettivo – si legge nell’ordinanza – la natura di potere dello Stato e la conseguente legittimazione del presidente della Repubblica ad avvalersi dello strumento del conflitto a tutela delle proprie attribuzioni costituzionali, sono state più volte riconosciute in modo univoco, nella giurisprudenza di questa Corte». La Consulta, poi, ricorda di aver «del pari riconosciuto, con giurisprudenza costante, la natura di potere dello Stato al pubblico ministero, in quanto investito dell’attribuzione, costituzionalmente garantita, inerente all’esercizio obbligatorio dell’azione penale, cui si connette la titolarità delle indagini ad esso finalizzate». Il procuratore della Repubblica, quindi, «è legittimato ad agire e a resistere nei conflitti nei giudizi per conflitto di attribuzione». Il presidente della Repubblica, sbattuto sui giornali dopo quelle conversazioni telefoniche con Nicola Mancino, oggi indagato per falsa testimonianza nell’ambito dell’inchiesta palermitana, non poteva essere intercettato, né indirettamente né occasionalmente, né quegli ascolti (già definiti penalmente irrilevanti dallo stesso procuratore di Palermo Messineo), in futuro potranno essere utilizzati in dibattimento? La Consulta intende entrare nel merito della questione in tempi brevi, tra novembre e dicembre. Il presidente Quaranta ha, infatti, deciso di «ridurre i termini del procedimento», vista l’istanza «di sollecita trattazione del ricorso» formulata dal Quirinale. La cancelleria della Consulta trasmetterà, quindi, l’ordinanza al presidente della Repubblica, e questa, insieme al ricorso firmato dall’avvocatura dello Stato, verrà notificata alla Procura di Palermo entro 30 giorni. Con la pronuncia di ammissibilità del conflitto di attribuzione, secondo l’Unione delle Camere penali, la Corte Costituzionale «fissa un primo punto fermo nella vicenda intercettazioni e mette a tacere i tanti grilli parlanti che, ostentando orgogliosi il proprio analfabetismo istituzionale, vagheggiano un Paese dove tutti sono intercettati e non esistono prerogative dettate dalle funzioni o cariche esercitate». Tuttavia per i penalisti appare curioso che il primo pronunciamento della Consulta arrivi «in contemporanea con la frattura all’interno di Magistratura Democratica, la corrente di cui fa parte il dottor Ingroia, ufficializzata da un comunicato che ne bacchetta l’esposizione mediatica, per giunta sulle vicende oggetto del sensazionale procedimento da lui imbastito sulla trattativa Stato-mafia». Una coincidenza, scrive l’Unione delle camere penali, che «deve indurre alla cautela, perché occorre capire se siamo all’inizio di una riflessione da parte della magistratura sul tema dell’invasione di campo che le Procure operano quotidianamente e in tutta Italia, ovvero se la presa di posizione costituisca il modo per far passare il, pur inguardabile, caso palermitano come eccezione rispetto ad una prassi generalizzata viceversa virtuosa».
I PM DI PALERMO. E Antonio Ingroia – il magistrato palermitano che insieme a Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, indagando sulla trattativa ha chiesto il giudizio per dodici tra politici, militari e mafiosi (udienza preliminare prevista per il 29 ottobre) – nelle stesse ore, dal palco della festa dell’Idv di Vasto, è tornato a ribadire la propria sorpresa di fronte alla linea tenuta dal Quirinale. Il conflitto di attribuzione, ha dichiarato il pm, «è uno strumento legittimo, ma il Quirinale ne aveva a disposizione anche altri e, visti i precedenti, non mi aspettavo che sollevasse il conflitto». «Non è previsto da nessuna parte che si debba procedere immediatamente alla distruzione delle intercettazioni irrilevanti», ha ribadito Ingroia. «Non tocca a me fare il difensore di Napolitano, che è difeso da mezzo Paese – spiega – ma quando Mancino venne intercettato non era noto che fosse indagato». Ma Ingroia ammette di sentirsi «a disagio» sulla questione del Colle. Il pm simbolo dell’Antimafia, che a breve lascerà l’Italia e la toga per un incarico in Guatemala, dal palco di Vasto è tornato a parlare anche delle indagini compiute nel tentativo di fare luce sulla stagione delle stragi: «Ci fu una macrotrattativa con la quale la mafia, detto brutalmente, voleva ricostruire un patto di convivenza con lo Stato e con la politica e dentro questo ci furono altre tre microtrattative». Il magistrato ha poi ripercorso le tappe fondamentali dell’inchiesta giudiziaria, ricordando il ruolo del “falso” pentito Scarantino nell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio e le confessioni di Spatuzza. E rispondendo a una domanda della giornalista Claudia Fusani, moderatrice del dibattito, ha aggiunto: «Mi rifiuto di pensare che si sia trattato solo di un depistaggio mirato a coprire killer più importanti. È chiaro che ci deve essere stato qualcosa di più grande che si voleva coprire». «Poi, se dopo aver considerato tutto questo – ha aggiunto con amarezza – si pensa che Borsellino è stato ucciso perché ostacolava la trattativa, forse si intravede che la posta in gioco doveva essere molto alta. Per questo l’inchiesta ha suscitato tanto clamore».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 4 ottobre 2012 [pdf]

«Avevo dichiarato guerra alla mafia e a marzo annunciai in Parlamento che ci sarebbero state delle stragi, non mi ascoltarono e si preferì adottare una linea più morbida. Non ho segreti ma alla Commissione antimafia ho detto di andare a guardare negli archivi del Viminale». Vincenzo Scotti, alla soglia dei 79 anni, ricorda ogni particolare delle ore in cui Nicola Mancino prese il suo posto al ministero dell’Interno. Era il '92, Cosa nostra presentava il conto a Falcone e Borsellino e lo Stato, forse, trattava la resa.
Onorevole Scotti, a distanza di vent’anni si è fatto un’idea del motivo per cui venne rimpiazzato al Viminale?
«Non c’era niente di personale. Il problema era strettamente politico. La risposta è nella storia scritta in quei due anni, a partire dal momento in cui cambiò la linea politica su come andava combattuta la mafia».
In altre parole sta dicendo che il fatto che lei si occupasse costantemente di lotta alla mafia dava fastidio a qualcuno?
«Con il decreto dell’8 giugno, quello che introduceva nell’ordinamento anche il 41-bis, volevamo impedire che i boss continuassero a gestire gli affari di famiglia anche dall’interno delle carceri. E quest’azione incontrò notevoli resistenze, in molte direzioni e con ragioni diverse. Da una parte c’era l’azione mia e di Martelli, apertamente a sostegno del pool di Palermo, e dell’altra c’erano alcuni, con ragioni nobili e altre meno, che ritenevano che la lotta alla mafia andasse condotta con forme meno aggressive di quelle che noi proponevamo. Questa è la storia di quegli anni. Secondo noi non bisognava continuare con i provvedimenti straordinari, ma bisognava cambiare le istituzioni investigative e giudiziarie».
Quindi?
«Quindi istituimmo la Direzione nazionale antimafia e la Dia, introducemmo la legge sui pentiti, cioè arrivammo a costruire una corpo di leggi e di strutture per dichiarare guerra alla mafia. Come del resto fu la mia scelta di indicare il nome di Borsellino, chiedendo la riapertura dei termini del concorso, per l’incarico di Procuratore nazionale antimafia. Una scelta che nasceva dall’esigenza di garantire continuità a un’azione. Avevano ammazzato Falcone, bisognava rispondere accentuando e non riducendo la pressione sulla mafia, quindi anche sostenendo la candidatura alla Dna di un uomo che aveva lavorato con lui». ...continua a leggere "Scotti: La mia lotta alla mafia"

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Potrebbe essere l’autunno più caldo degli ultimi vent’anni. È la storia che torna a presentare il conto ai già provati protagonisti della Prima Repubblica, con un rigurgito di veleni e sospetti che arriva da lontano. E’ lo Stato che interroga se stesso, come tante volte è accaduto in Italia, chiedendo ai suoi apparati di sollevare il coperchio di una pentola che bolle ancora. Il 29 ottobre, giù a Palermo, un giudice, Piergiorgio Morosini, dovrà posare gli occhi sui 120 faldoni che compongono l’inchiesta sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e la Mafia e decidere se mandare a processo – come chiede la procura – i 12 indagati. Tutti nomi eccellenti, sia dentro Cosa nostra sia dentro i palazzi del potere. E in quelle carte c’è abbastanza per rimettere tutto in discussione. Vent’anni dopo quel maledetto Novantadue, l’anno delle stragi, del delitto Lima (12 marzo), di Capaci (23 maggio) e via D’Amelio (19 luglio). E’ lo scenario nel quale, secondo i magistrati di Palermo, si mette in moto e va in scena la trattativa. Da allora si cercano ancora verità e risposte. Quello che non sappiamo, la verità sull’agguato a Paolo Borsellino e molto altro, il ruolo della politica e di chi, nell’ombra, si occupava del lavoro sporco, potrebbe emergere da questo rompicapo. E’ il tentativo dei magistrati Antonio Ingroia, Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, che l’11 giugno hanno sottoscritto l’avviso di chiusura delle indagini preliminari e successivamente chiesto il giudizio, a vario titolo, per dodici tra politici, militari e mafiosi. Tra loro ci sono i boss Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Giovanni Brusca, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Gli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino. E poi, il testimone, Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco mafioso di Palermo, Don Vito, indagato per concorso in associazione mafiosa e calunnia (ai danni dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro). ...continua a leggere "Amnesie di Stato"

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Neanche la penna di Joseph Conrad, l’autore del celebre romanzo L’agente segreto, avrebbe potuto partorire una storia così. Eppure, a leggerla con gli occhi di un qualunque complottista – e in Italia ce ne sono davvero tanti – il ritorno in auge dell’eterno sospetto, che dietro il pool di Milano e l’inchiesta mani pulite ci fosse la manina dell’intelligence americana, ancora oggi annovera autorevoli sostenitori. «Una storia – commenta a Il Punto l’allora capo del pool di Milano, Francesco Saverio Borrelli – che è frutto di un’immaginazione un po’ sfrenata». Perciò nulla da invidiare alle pagine e allo stile di Conrad. E gli ingredienti, manco a dirlo, ci sono tutti: un politico, Bettino Craxi, che se la intende con il Medio Oriente; una potenza straniera, gli Stati Uniti d’America, che non vede di buon occhio tanta libertà nel Mediterraneo; e, infine, l’incidente diplomatico che fa traboccare il vaso, il braccio di ferro di Sigonella dopo il dirottamento della nave Achille Lauro (1985). Un precedente non di poco conto, che avrebbe verosimilmente «armato» la diplomazia Usa, spingendola a intromettersi nella vita pubblica italiana. Come? Infiltrandosi tra i magistrati che indagando sulla politica (il Psi e Bettino Craxi in primis) stavano cambiando il corso della storia. ...continua a leggere "Mani pulite non è un romanzo"