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Aldo MoroUn'operazione perfetta, da manuale. I periti balistici definirono così l’agguato di via Mario Fani in cui persero la vita tutti gli uomini della scorta di Aldo Moro. E in quell'azione prese parte anche un misterioso "cecchino", mai identificato, che in pochi secondi, con grande freddezza e precisione, annientò la scorta esplodendo da solo ben 49 colpi sui 91 repertati.
Erano le 9.02 del 16 marzo 1978, quando la Fiat 132, guidata dall'appuntato Domenico Ricci e con a bordo il presidente della Dc e il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, percorreva via Fani, seguita dall'Alfetta con i tre agenti della scorta, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Le due vetture erano partite, come quasi ogni mattina, dall'abitazione di Moro, in via del Forte Trionfale, e, seguendo il percorso abituale verso il centro, avevano raggiunto via Fani.
L'agguato avvenne nell'arco di una manciata di minuti davanti al bar Olivetti, a pochi metri dall'incrocio con via Stresa. Una Fiat 128 con targa diplomatica, guidata dal brigatista Mario Moretti, frenando bruscamente tamponò l'auto di Moro. Nei successivi tre minuti il commando di brigatisti, che secondo le ricostruzioni ufficiali era formato da 9 persone che indossavano divise di avieri civili, annientò gli uomini della scorta e sequestrò il presidente della Dc. ...continua a leggere "Il giallo del “cecchino” di via Fani, non era un brigatista e sparò 49 colpi"

Aldo MoroTrentasei anni dopo l’eccidio di via Fani, il sequestro e la condanna a morte del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, il Parlamento, per la terza volta, tornerà a indagare su uno dei misteri più intrigati della storia repubblicana. La Camera, infatti, ha approvato ieri (269 favorevoli, 73 contrari) la proposta di legge del Partito Democratico, largamente condivisa anche da altre forze politiche, per istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta che avrà il compito di accertare «nuovi elementi che possano integrare le conoscenze già acquisite dalle precedenti Commissioni» ed eventuali responsabilità «riconducibili ad apparati, strutture e organizzazioni comunque denominati ovvero a persone a essi appartenenti o appartenute». Ora il testo del provvedimento passerà al Senato.
La Commissione d’inchiesta, la cui proposta di istituzione aveva come primi firmatari i parlamentari del Pd Giuseppe Fioroni e Gero Grassi, avrà diciotto mesi di tempo per completare i propri lavori e trasmettere al Parlamento una relazione. Sarà composta da 25 senatori e da 25 deputati e avrà un presidente, eletto tra i suoi componenti. I poteri di cui disporrà saranno analoghi a quelli della magistratura e, dunque, l’organismo potrà avvalersi non solo di consulenti esterni ma anche di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria.
Il perché di una nuova Commissione è spiegato nella proposta approvata a Montecitorio e in un voluminoso dossier presentato nelle scorse settimane dai parlamentari del Pd che, nel ripercorre quei terribili 55 giorni, mette in luce tutti i “buchi neri” del caso Moro. «I lavori delle precedenti Commissioni – scrivono i parlamentari proponenti – hanno dimostrato che non vi è un’impossibilità oggettiva di risalire alla ricostruzione precisa della dinamica. Quello che turba sono invece le reticenze e le omissioni che hanno impedito alla verità di emergere completamente. La presente proposta di inchiesta parlamentare ha l’ambizione di scrivere la parola fine accertando la verità storica dell’evento, ma anche di recuperare il ritardo e le omissioni dello Stato sull’intera vicenda. Ancora troppi, infatti, a distanza di oltre trentacinque anni, sono i lati oscuri dell’azione terroristica e di quella difensiva dello Stato. Spiace purtroppo constatare che, fatti salvi alcuni importanti servizi radiotelevisivi e molti libri scritti sull’evento, ancora oggi esiste una reticenza generale a discutere del caso Moro, di cui si parla solo in occasione delle ricorrenze del 16 marzo e del 9 maggio. Evidentemente, nonostante il trascorrere degli anni, permane un senso di colpa su quello che lo Stato poteva e doveva fare per la liberazione dello statista democristiano e che invece non ha fatto o non ha fatto completamente».
“«Siamo convinti che il nostro Paese ha bisogno della verità sul caso Moro – ha dichiaratoGero Grassi commentando l’approvazione della pdl – e per questo riteniamo molto importante l’istituzione di  una nuova Commissione d’’inchiesta. Infatti sarà utile un grande lavoro di sintesi e di analisi dei fatti emersi nel corso degli anni recenti e di un luogo istituzionale che si occupi di raccogliere e rendere pubblici tutti di documenti, molti ancora sparsi tra vari enti, tantissimi ancora ‘classificati’ (come è il caso dei circa 30% di quelli conservati dall’’archivio storico del Senato), prodotti sul rapimento e l’’uccisione del presidente della Democrazia cristiana. La verità sul caso Moro, che ha rappresentato uno spartiacque nella storia del nostro paese, può illuminare il nostro passato e quel tragico fatto ma può aiutarci anche a guardare con maggiore lucidità e consapevolezza il futuro. Per questo l’’opposizione distruttiva del Movimento 5 Stelle è stata del tutto incomprensibile e politicamente sbagliata, visto che nei loro interventi anche i deputati grillini riconoscono la necessità di ricostruire una verità. Particolarmente confusa la loro proposta di inserire tra i compiti della commissione anche un’inchiesta sulla tragedia di Ustica, che ci porterebbe lontano dal nostro obiettivo, e di rimuovere le disposizioni relative al segreto di Stato che, in realtà, come è noto, non è opponibile in caso di stragi. Dunque, non sono emersi ragionevoli punti di criticità riguardo alla istituzione della Commissione – ha concluso l’esponente Democratico – con la quale ci assumiamo la responsabilità di svolgere un serio lavoro al servizio della verità”».
Nella storia ci sono già due precedenti. La prima Commissione parlamentare d’inchiesta che tentò si fare luce sul rapimento e l’uccisione del presidente Moro fu istituita nel novembre del’79. Vi parteciparono uomini del calibro di Leonardo SciasciaUgo PecchioliRaniero la Valle e Sergio Flamigni. Nel ’88, nel corso della X legislatura, il Parlamento tornò a indagare, anche sul caso Moro, istituendo la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi.

di Fabrizio Colarieti

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Quattordici anni lontani, distanti uno dall’altro. Le morti di Aldo Moro e di Paolo Borsellino sembrano essere legate dal tradimento. Di quella parte di Stato che entrambi, con ruoli diversi difendevano. E per il quale hanno, alla fine, dato la vita. Le lettere scritte da Moro durante i 55 giorni della prigionia sono un potente e implacabile atto d’accusa per la politica italiana. Le ultime rivelazioni che giungono da Caltanissetta sugli ultimi giorni di Borsellino rappresentano un colpo micidiale per la credibilità della lotta alla mafia.
C’è un luogo ben preciso e ricco di significati dove lo Stato e l’anti Stato si incontrano. È il Cafè de Paris, da simbolo della Dolce Vita romana negli Anni Sessanta a emblema dell’infiltrazione criminale nella Capitale nei nostri giorni. A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro di Aldo Moro, Francesco Fonti – oggi meglio conosciuto come il pentito che ha raccontato le vicende delle navi dei veleni - viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma. Dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti - erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini, morto a Ravenna il 5 novembre 1989. Fu proprio nel locale di via Veneto, che Fonti incontrò l’esponente democristiano: «E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico – disse il politico - e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così». Fonti ricorda come Zaccagnini non facesse nulla per nascondere il proprio “schifo”: «Non sono mai sceso a compromessi - riprese - ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi». Prima di andarsene, disse: «Non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino». Quello che Zaccagnini non sapeva era che Fonti, uomo organico all’organizzazione criminale, da nove anni frequentava con profitto le stanze di Forte Braschi. E che già conosceva l’agente Pino. Moro non venne salvato. Certo non per colpa di Fonti che, anzi, tornato in Calabria, riferì delle ricerche avviate. Ma venne bruscamente stoppato: «La vicenda non interessa più», gli fu detto. ...continua a leggere "Da via Fani a via D’Amelio, il filo rosso che unisce le morti di Moro e Borsellino"

Di quella palazzina al civico 96 di via Gradoli, a due passi dalla Cassia, non se ne sentiva parlare da tempo. Così come del ruolo giocato da un reatino in vista che aveva legami con quel palazzo. Non se ne parlava da 31 anni, da quando il 18 aprile 1978, in pieno sequestro Moro, la polizia scoprì lì dentro il covo del brigatista Mario Moretti che in quelle stesse ore teneva prigioniero il presidente della Dc in via Montalcini. Ma alle 15 di sabato un lancio dell'Ansa ha riportato l'orologio indietro di 31 anni, spiegando che in quella stessa palazzina il presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, avrebbe incontrato, a luglio, il transessuale con cui sarebbe stato filmato. Quella palazzina per anni è stata definita "il covo di Stato", e non solo perché il parlamentare Sergio Flamigni gli dedicò un libro (edito dalla Kaos) mettendo in luce i legami tra lo stabile e il Sisde, il servizio segreto civile. Dietro tutte queste coincidenze, le cronache di allora raccontano anche di un groviglio di società di copertura riconducibili al servizio segreto civile che in quello stesso palazzo aveva molte proprietà immobiliari. Dietro quelle società, lo documentò Flamigni, c'erano 007 e faccendieri che fungevano da fiduciari. Uno di quei 007 era "il cartaro", l'agente Maurizio Broccoletti. Proprio lui, il reatino Broccoletti: l'alto dirigente del Sisde condannato nel 2000 a 7 anni e 5 mesi di reclusione per lo scandalo dei fondi riservati. Molti documenti e atti notarili di quelle società hanno in calce la sua firma. Di certo, oltre trent'anni dopo, quel condominio - oggi abitato da molti trans - racconta una storia diversa, quella che coinvolge Marrazzo, ma allo stesso modo ancora ricca di misteri e scabrose rivelazioni. Coincidenze.

di Fabrizio Colarieti per Il Messaggero [articolo originale]