FABRIZIO COLARIETI

Antonio Mennini, i segreti del confessore di Moro

Aldo MoroPedinare Don Antonello, il sacerdote, amico e confessore di Aldo Moro, avrebbe permesso di trovare la sua prigione? Francesco Cossiga ne era fermamente convinto, a tal punto da rimproverarsi, per anni, di non aver fatto sorvegliare adeguatamente il giovane viceparroco della Chiesa di Santa Lucia, nel quartiere Trionfale di Roma, che durante quei terribili 55 giorni tenne i contatti tra Moro, prigioniero delle Brigate Rosse in un appartamento di via Montalcini, e i suoi familiari.
La storia racconta che fu proprio l’ex presidente della Dc a indicare ai carcerieri il nome di Don Antonio Mennini, che a quell’epoca aveva appena 31 anni, per affidargli il delicato incarico di consegnare le sue lettere ai familiari.
Si fidava di lui e, forse, era anche certo che la polizia non lo avrebbe sorvegliato. E così andò, almeno stando al racconto di Cossiga, che ha sempre ripetuto che quel sacerdote, probabilmente, era stato l’unico estraneo alla cerchia delle Br a incontrare Moro e a raccogliere la sua ultima confessione prima dell’esecuzione.
Don Antonello, gesuita, figlio di un alto funzionario laico dello Ior, oggi arcivescovo e Nunzio apostolico in Gran Bretagna, non ha mai raccontato fino in fondo cosa accadde in quelle ore. Ha sempre preferito sminuire il suo ruolo, oppure trincerarsi dietro il segreto della confessione e la sua veste di ministro vaticano. Ha parlato dell’affaire Moro almeno sette volte in passato, tra procure, corti d'assise e commissioni parlamentari, ma il sospetto che non abbia detto tutto lo insegue da quasi 40 anni.
Il 9 marzo è stato chiamato a farlo una volta di più, a testimoniare - per volere di papa Francesco in persona - davanti alla nuova commissione di inchiesta parlamentare.
Mennini ha ribadito quello che già aveva detto nel giugno del 1993, durante il processo Moro-quater: «Non sono mai entrato nell’appartamento di via Montalcini». Aggiungendo: «Se avessi avuto un'opportunità del genere credete che sarei stato così imbelle? Mi sarei offerto di prendere il suo posto».
Nel '93 il nunzio raccontò che a partire dal primo contatto telefonico con i carcerieri, il 20 aprile 1978, si era occupato di recuperare le lettere che gli venivano segnalate dai brigatisti e di consegnarle ai familiari del rapito.
Negò però di aver ricevuto tre missive, scritte da Moro e a lui personalmente indirizzate, di cui furono trovate copie nel carteggio scoperto nell’ex covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano.
Cossiga, che all’epoca era a capo del Viminale e dell’unità di crisi che gestì il caso Moro, ha sempre nutrito forti dubbi sul racconto fornito da Monsignor Mennini.
«Raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi invece non lo scoprimmo», disse nel 2008, aggiungendo che la polizia aveva messo sotto controllo telefonico e sotto pedinamento tutta la famiglia di Moro e tutti i suoi più stretti collaboratori, tranne il suo parroco. «Ho sempre creduto che don Antonello abbia incontrato Moro per raccogliere la sua confessione prima dell'esecuzione».
Lapidario fu il commento della figlia di Moro, Agnese: «Bisogna chiedere a lui».
Il ruolo di Don Antonello, poi, s’intreccia con l’esistenza di una presunta trattativa segreta per liberare l’ostaggio che fallì in extremis.
Ipotesi contenuta nel libro scritto da Alessandro Forlani, La zona franca (Castelvecchi), in cui si narra che il 9 maggio 1978 Moro doveva essere liberato e consegnato al Vaticano, a seguito di un accordo che impegnava la Santa Sede a versare ai brigatisti un riscatto di svariati miliardi di lire.
In un passaggio del libro anche l'ex segretario di papa Giovanni XXIII, Monsignor Loris Capovilla, conferma la tesi di Cossiga, e cioè che Mennini fu l’unico a incontrare Moro durante la prigionia.
Nelle parole di Cossiga, tuttavia, c’è un’imprecisione: il telefono di Don Antonello fu intercettato durante il sequestro e tra quelle telefonate, in parte stranamente scomparse dagli atti processuali, ce n’è una molto interessante. Nel primo pomeriggio del 9 maggio, quando ormai la notizia del ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani era divenuta pubblica, il sacerdote, parlando con un monsignore non meglio identificato, disse: «L’hanno ammazzato», aggiungendo che andrà «da lui perché ha da dirgli dei segreti». Qualche tempo dopo, interrogato dagli inquirenti sul contenuto di quella telefonata, Mennini sostenne che stava parlando con il suo padre spirituale, Heinrich Pfeiffer, gesuita e docente di storia dell’Arte cristiana presso l’Università Gregoriana, «di questioni non attinenti ai fatti per cui è processo, ma che riguardavano il mio futuro di sacerdote».
Per molti osservatori il fatto che Bergoglio abbia chiesto al potente rappresentante della diplomazia vaticana di varcare le porte di San Macuto, per essere di nuovo ascoltato da una commissione parlamentare che cerca di fare luce sul caso Moro, poteva essere un segnale positivo, che faceva ben sperare.
Tuttavia Mennini, tornato in Italia solo per assolvere questo impegno, ha ripetuto quanto aveva già detto nelle occasioni precedenti. Terminata l'audizione, ripartirà alla volta della Gran Bretagna. Portando con sé quel pesante fardello di ombre e sospetti che lo perseguita da quasi 40 anni.

di Fabrizio Colarieti per Lettera43 [link originale]

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