Vai al contenuto

Cervia_DavideLo aspettavano sotto casa, erano pronti a tutto pur di rapirlo. Lo hanno spinto, poi picchiato e prima di farlo salire con la forza su un’auto lo hanno narcotizzato avvicinandogli un fazzoletto alla bocca. Davide Cervia è scomparso così, diciassette anni fa. È la ricostruzione più plausibile di un’azione che assomiglia tanto all’extraordinary rendition con cui la Cia ha sequestrato, nel 2003 a Milano, l’imam Abu Omar. Questa è la storia di un uomo sparito nel nulla, diventato “indispensabile” a chi trafficava in armamenti e sofisticate apparecchiature elettroniche per la difesa made in italy mentre le truppe di Saddam Hussein invadevano il Kuwait. Urlava, si dimenava, Davide Cervia ha tentato fino all’ultimo istante di richiamare l’attenzione di un suo vicino di casa, ma non ce l’ha fatta. Da quel mercoledì 12 settembre 1990 di lui non si sa più nulla. Siamo a Velletri, in provincia di Roma, all’altezza del civico 28 della Contrada Colle dei Marmi. Davide Cervia sta rientrando a casa, dove lo aspetta sua moglie, Marisa Gentile, insieme ai suoi due figli, un bimbo di 4 anni e una bambina di 6. Sono le cinque del pomeriggio. Un agricoltore, Mario Cavagnero, è il primo testimone oculare ad assistere alle fasi successive al sequestro. L’uomo ha un fondo vicino all'abitazione di Cervia e quel pomeriggio, mentre è intento ad annaffiare una siepe, come dirà agli inquirenti, sente le urla di Cervia. Lo sente pronunciare, per almeno tre volte, il suo nome: «Mario… Mario… Mario…». Tutto avviene mentre un’auto di colore chiaro percorre in direzione della via Appia Nuova il viale che porta a casa di Cervia. Cavagnero, oggi scomparso, racconta prima ai familiari di Cervia poi ai Carabinieri di avere avuto la sensazione che dentro quell’auto ci fosse proprio il suo vicino di cui ha riconosciuto la voce, alta e concitata. C’è un altro testimone: è un autista delle autolinee Acotral, Alfio Greco. Il conducente è alla guida del pullman sulla linea Torvajanica-Velletri ed è costretto a frenare bruscamente proprio nel punto dove la Contrada Colle dei Marmi si immette sulla Via Appia Nuova. Un’auto, una Wolkswagen Golf bianca, con alla guida un giovane dalla carnagione chiara e con i baffi, non gli dà la precedenza. Lui è costretto a lasciarlo passare. L’auto è seguita, a brevissima distanza, da un’altra Golf verde scuro con a bordo almeno altre tre persone. Sui sedili posteriori, dirà l’autista del pullman agli inquirenti, c’è seduto qualcuno che ha le spalle poggiate al vetro quasi a voler coprire qualcosa o qualcuno. Le due auto, superato l’incrocio, prima di scomparire nel nulla si immetteranno a forte velocità sull’Appia Nuova in direzione Genzano-Roma. Ma chi è Davide Cervia? Nato a Sanremo nel ’59, nel settembre 1978 si arruola come volontario in Marina dove rimane, prima di congedarsi rinunciando ai ruoli permanenti, fino a tutto l’83, anno in cui conosce la donna che di lì a poco diventerà sua moglie. Fino all’agosto 1980 Cervia frequenta un corso biennale, come tecnico elettronico, alla Scuola della Marina di Taranto. Nel settembre dello stesso anno è trasferito a La Spezia e imbarcato sulla nave officina Moc 1204 e successivamente partecipa, nelle stesse officine, all’allestimento della nave Maestrale. Le sue eccellenti capacità nel campo dell’elettronica gli permettono subito di distinguersi. Terminato con ottime valutazioni l’iter addestrativo, Cervia, con la qualifica di “addetto Elt/Ete/Ge”, viene impiegato nella manutenzione e nell’utilizzo di particolari apparecchiature radar di “intercettazione” e “inganno”. In parole povere il sottufficiale è un esperto di guerra elettronica. Frequenta anche alcune aziende specializzate nella progettazione di apparecchiature per scopi militari, in particolare la Elettronica Spa di Roma e la Sma di Firenze, e gli viene rilasciato anche un apposito nulla osta di sicurezza (Nos segreto-Nato). Era abilitato - scriverà lo Stato Maggiore della Marina nel ’91, fornendo più versioni del suo foglio matricolare nel corso delle indagini - all’uso di sottosistemi di guerra elettronica installati sulle fregate della Marina. Sono tutte apparecchiature il cui funzionamento risultava classificato “riservatissimo”. Cervia con il grado di sergente lascia la Marina nell’84. Ha un bel curriculum e alle spalle cinque anni di formazione. Negli anni Ottanta-Novanta, quando la discussa industria militare italiana vantava commesse da tutto il mondo, fa presto a trovare lavoro nel privato. Si fa assumere dalla Enertecnel Sud, una società che produce componenti elettronici ad Ariccia, un altro comune dell’hinterland romano a mezz’ora da Velletri dove Cervia nell’88, ormai sposato, si è trasferito. Il tecnico lavora e pensa alla sua famiglia a cui è molto attaccato, non ha nessun motivo per mettere in pratica insani gesti. Chi lo ha rapito può essere interessato solo alle sue capacità tecnico-militari acquisite in Marina e dentro quelle aziende della cosiddetta Tiburtina Valley. Chi lo ha rapito ha bisogno di lui per far funzionare qualcosa che lui conosce come le sue tasche: i radar. Marisa Gentile, la moglie che ancora oggi si batte nella ricerca della verità, si reca a denunciare la scomparsa del marito il giorno successivo e da allora attende di sapere perché glielo hanno portato via. Il coraggio, l’ostinazione di Marisa e della sua famiglia hanno permesso che si scrivesse, nero su bianco, che Davide Cervia fu vittima di un sequestro. Lo ha scritto l’allora sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Luciano Infelisi,chiedendo nel novembre del ’99 l’archiviazione «perché ignoti gli autori del reato» dell’unica indagine che sia riuscita ad arrivare a una conclusione pur non facendo piena luce sul caso. C’è voluta l’ostinazione di Marisa Gentile, del giornalista Gianluca Cicinelli, che sul caso ha scritto un libro e costituito insieme alla moglie di Cervia un Comitato per la verità, e dell’avvocato Nino Marazzita affinché la Procura generale avocasse a sé l’indagine avviata dalla Procura di Velletri che non riusciva ad esercitare l’azione penale «per carenza di organico». Eppure Marisa Gentile e Gianluca Cicinelli sono finiti sul banco degli imputati accusati - e poi assolti perché il fatto non costituisce reato – per i contenuti di quel libro pubblicato nel ’94 che ruppe il silenzio sul caso Cervia. Secondo il procuratore Luciano Infelisi, Cervia non aveva motivo di allontanarsi volontariamente dalla sua abitazione, né di togliersi la vita. Quel pomeriggio tornava a casa dove aveva dato appuntamento ad alcuni tecnici dell’Enel che dovevano eseguire dei lavori e per la mattina successiva aveva chiesto a un suo collega delle uova fresche per i bambini. Ci sono i due testimoni oculari le cui deposizioni sono risultate attendibili nel ricostruire quanto accadde quel giorno a Velletri, ma manca qualcosa. Manca la volontà di scavare. La storia di Davide Cervia, come tanti altri casi in cui lo Stato si è trovato a interrogare lo Stato, è scandita da inquinamenti, omissioni, depistaggi e colpevoli silenzi che non hanno permesso alla magistratura di raggiungere alcun obiettivo se non quello di lasciare aperto il caso. È inquietante come la Marina militare ha trattato il caso Cervia e come sia arrivata, in alcuni casi, anche a smentire se stessa nel comunicare agli inquirenti le reali mansioni del sottufficiale, quasi a voler nascondere le sue capacità. È inquietante l’inerzia incontrata dentro quei palazzi dove i familiari di Cervia hanno tentato di trovare delle risposte. Sono inquietanti i contenuti delle lettere anonime giunte in questi anni alla famiglia Cervia che in alcuni casi arrivano ad avvalorare la tesi secondo cui l’uomo sarebbe stato rapito da agenti segreti di una potenza straniera per sfruttarne la sua specializzazione. E poi, ancora, che il sottufficiale avrebbe perso la vita il 4 febbraio 1991 in un centro radar a nord di Bassora (Iraq) colpito da un missile. Poi lo segnalano, insieme ad altri esperti italiani, in una struttura dell’intelligence irachena a Zawra Park sulle rive del Tigri bombardata dagli americani nel luglio del ’93. Tre anni dopo le lettere anonime arrivano a segnalare che l’esperto sarebbe vivo e si troverebbe in una base sotterranea segreta dell’Iraq a 110 chilometri da Baghdad, ma l'Ambasciata irachena presso la Santa Sede smentirà subito che Cervia si trovi lì. Le cronache dei primi anni Novanta raccontano delle truppe di Saddam Hussein che invadono il Kuwait, di una prima Guerra nel Golfo, scoppiata appena un mese prima della scomparsa di Cervia, ma anche di traffici internazionali di armamenti e apparecchiature elettroniche destinate alla Difesa. Raccontano di importanti società italiane (Fincantieri, Oto Melara, Aeritalia, Selenia, Elettronica, Sma e Meteor) in commercio con il Medio Oriente e con il Nord Africa e di esperti italiani “noleggiati” alla Libia di Gheddafi e all’Iraq di Saddam per addestrare militari all’utilizzo di apparecchiature “made in Tiburtina Valley”. Ma le nostre apparecchiature, le stesse su cui Cervia si era fatto le ossa in Marina, come il sistema missilistico antinave Otomat-Teseo, finivano anche in Iran, Venezuela, Perù, Ecuador, Malesia e Nigeria. Oggi a diciassette anni dalla scomparsa di Cervia, la moglie Marisa non se la sente più di parlare, affida tutto a un malloppo di carte che raccontano anche che i nostri servizi, in particolare il Sismi, definirono “credibile” la tesi che Cervia fu rapito per interessi commerciali-militari legati alla sua competenza professionale. Ma la realtà è un’altra. Le indagini sono ferme al 5 aprile 2000 quando la gip Paola Astolfi del Tribunale di Velletri, ritenuti ignoti gli autori del sequestro, ha archiviato l’inchiesta della Procura generale di Roma.

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 1 giugno 2007 [pdf]

Jolly2«Con i traffici di rifiuti e gli affondamenti delle navi non c’entriamo nulla». Sono in mare dal 1921 e non ci stanno proprio a farsi etichettare come trafficanti di scorie e affondanavi. La Ignazio Messina & C. Spa, una flotta di quindici navi che collegano i principali porti del Mediterraneo, è la società armatrice della Jolly Rosso. Dal quel 14 dicembre 1990, quando la loro motonave portacontainer si arenò nella spiaggia cosentina di Formiciche di Amantea, i vertici aziendali della compagnia respingono con forza ogni accusa. La procura di Paola - che seguendo le rivelazioni di un pentito della ‘ndrangheta nei giorni scorsi ha individuato sul fondo del basso Tirreno un altro misterioso relitto - punta il dito contro l’armatore genovese che avrebbe tentato di affondare la sua nave per smaltire illegalmente un carico di scorie. La linea difensiva della Ignazio Messina, tuttavia, è sempre la stessa da sedici anni: è scritta in un dossier di quasi quattrocento pagine redatto nel 2004. La verità, che prova a demolire pezzo per pezzo il teorema della procura, è tutta nella ricostruzione dei fatti: la nave, di ritorno da Malta per La Spezia con un carico di tabacco, nylon e prodotti per bevande, si arenò a causa di alcune falle create nello scafo da un semi-rimorchio, ospitato nella stiva, che ruppe gli ancoraggi e sbatté più volte contro la paratia di sinistra. Quindi nessun tentativo doloso di affondarla. Nessun carico di rifiuti o scorie radioattive da occultare in fondo al mare. Tutto ciò avvenne a causa delle pessime condizioni meteo (mare forza 8/9). Da quelle falle entrò acqua, erano circa le 7, il comandante avvertì un rumore proveniente dalla stiva, la nave sbandò, si inclinò e finì per spiaggiarsi lungo il litorale di Amantea. «La Messina - spiega ad Avvenimenti il suo amministratore delegato Andrea Gais - ha la coscienza pulita. L’immagine della nostra società è stata infangata, calunniata e massacrata per sedici anni da una campagna di stampa di cui evidentemente ci sfuggono le origini». Quella mattina nel mare di Calabria c’era anche un’altra nave della stessa compagnia: la Jolly Giallo in navigazione verso Tripoli. I magistrati sono arrivati ad ipotizzare un suo coinvolgimento: in sostanza questa seconda nave faceva da appoggio al piano di affondamento. «Nessun mistero. È la balla più grossa che abbiamo sentito finora - la secca replica di Gais -, la Giallo era stata dirottata in quella zona dalle autorità marittime, è stata l’ultima nave ad arrivare lì dopo l’Sos ed era obbligata ad avvicinarsi ed intervenire. Fu un ultimo tentativo di salvare nave e carico: la Giallo doveva agganciare la Rosso e trainarla al largo ma l’operazione di soccorso purtroppo non andò a buon fine». E quelle mappe, quei documenti trovati a bordo della Rosso con il marchio della Oceanic disposal management Inc., la holding del faccendiere, “affossascorie”, Giorgio Comerio? «Sulla nostra nave - aggiunge l’amministratore delegato della Ignazio Messina - , lo ribadiamo, non c’erano documenti della Odm. Quella società è nata nel 1993, tre anni dopo l’incidente della Rosso». Ma la Ignazio Messina deve difendersi anche dalle pesanti rivelazioni di un pentito: un ex boss della ‘ndrangheta, che in un memoriale consegnato all’Antimafia dice di essersi occupato, nell’ottobre del 1992 e su loro mandato, di affondare tre navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi proprio al largo della Calabria. «Nell’arco di un paio di settimane - scrisse il boss - abbiamo affondato tre navi indicate dalla società Messina. La Yvonne A, ci disse la Ignazio Messina, trasportava 150 bidoni di fanghi, la Cunski 120 bidoni di scorie radioattive e la Voriais Sporadais 75 bidoni di varie sostanze tossico-nocive. Ci informò anche che le imbarcazioni erano tutte al largo della costa calabrese in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza». E ora le novità. L’8 gennaio scorso i tecnici di una società, la Blue Tek, incaricata di effettuare le ricerche dalla procura di Paola hanno individuato proprio al largo di Cetraro, a circa quattro miglia dalla costa, una nave, lunga circa cento metri e larga almeno quindici, adagiata ad una profondità di circa quattrocento metri. Il relitto è danneggiato nella parte centrale e il sofisticato Side Scan Sonar utilizzato per scandagliare il fondo del Tirreno ha individuato, nel raggio di alcune centinaia di metri attorno al relitto, una misteriosa macchia scura. Più a nord di questo punto, a circa dieci miglia dalla costa di Belvedere, quasi in acque internazionali, gli esperti hanno riferito al magistrato Francesco Greco di aver individuato un altro corpo, definito “estraneo”, lungo circa centotrenta metri, che si trova a cinquecento metri di profondità. È la conferma che aspettavano gli inquirenti dopo le rivelazioni del boss? «Che un non meglio identificato pentito – controbatte Andrea Gais - abbia detto di aver avuto rapporti con noi lo smentiamo nella maniera più assoluta e categorica. Non sappiamo neanche chi è questo personaggio e questo fantomatico memoriale noi non l’abbiamo mai letto, ce l’ha L’espresso, noi no... Su quali prove si basa la nostra colpevolezza? La nostra compagnia ha più di ottantanni - prosegue – non accettiamo che un boss ci venga a dire che quelle navi le abbiamo fatte affondare noi. Non possiamo accettarlo. Questo boss mente, è stato foraggiato da qualcuno che vuole continuare a tirarci in ballo e non sappiamo per quale motivo». Tutte accuse da provare. Sarà necessario immergersi in mare e capire cosa c’è sotto. Come sarà necessario scavare nelle discariche nell’entroterra di Amantea, dove sono state trovate tracce di metalli pesanti e altre sostanze tossiche e dove secondo il pm Greco sarebbero stati smaltiti, cioè sotterrati illecitamente, i rifiuti trasportati dalla Rosso. Stando ai riscontri dei Lloyd’s di Londra e di Legambiente sono almeno venticinque le navi affondate dolosamente nel Tirreno e nel mar Ionio. «Nel maggio 1993 all’altezza del Canale di Sicilia - ricorda Enrico Fontana dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente - affondò certamente la Marco Polo. Come per la Koraline, affondata al largo di Ustica, in alcuni container ritrovati, fu riscontrata una radioattività da torio 234. Navi fantasma sono anche la Mikigan, affondata il 31 ottobre 1986 nel mar Tirreno calabrese, con il suo carico misterioso e la Rigel affondata il 21 settembre del 1987 al largo di Capo Spartivento. Le dinamiche del loro naufragio e di come si siano “lasciate andare” verso i fondali presentano impressionanti analogie». La Yvonne A, la Cunski e la Voriais Sporadais che fine hanno fatto? Sono lì, sul fondo del Tirreno? Secondo il Lloyd’s Marine Intelligence Unit, l’unità che svolge indagini sulle navi per conto dell’assicuratore marittimo londinese, la Yvonne A e la Cunski non risultano disperse: sono state demolite rispettivamente nel 2004 e nel 1991, mentre non è stata trovata alcuna nave che abbia mai avuto il nome Voriais Sporadais.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 3 febbraio 2006 [pdf]

2626_14_mediumCosa lega la morte della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, avvenuta a Mogadiscio il 20 marzo 1994, con le decine di “navi a perdere” affondate nel Mediterraneo con il loro carico di pericolosi rifiuti? E qual è il ruolo del faccendiere Giorgio Comerio? Qualcuno questa indagine ha tentato di svolgerla, sollevando per un attimo il coperchio. Ma la verità, come spesso capita in questo paese, si è insabbiata allo stesso modo come la mattina del 14 dicembre 1990 si è arenata sulla spiaggia di Formiciche di Amantea la motonave Rosso della Ignazio Messina di Genova. Quella mattina, lungo le coste cosentine, il mare è mosso, c’è una tempesta in corso: mare forza otto. La Rosso dieci giorni prima salpa da La Spezia destinazione Napoli e poi Malta da dove riparte il 13 per far ritorno in Liguria. A bordo ci sono 16 membri dell’equipaggio, nella stiva: 9 container con tabacco e liofilizzati e altri 25 vuoti. Il comandante lancia via radio il mayday cinque minuti prima delle 8, è a circa 15 miglia dalla costa. Alle 10 un elicottero mette in salvo l’equipaggio. La nave è ormai ingovernabile, ha il timone bloccato e imbarcando acqua naviga fino alla spiaggia dove si arena intorno alle 14. L’inchiesta della capitaneria di porto di Vibo Valentia concluderà che la motonave si è arenata «a causa di uno sbandamento dovuto a una infiltrazione nella stiva poppiera e al successivo blocco dei motori». Cominciano le indagini e le stranezze, fin dalle prime battute, non mancano. Attorno a quella motonave, che rimarrà “spiaggiata” oltre sei mesi, ci sono insoliti movimenti: in un rapporto della capitaneria si fa riferimento, tra l’altro, alla presenza a Formiciche di agenti segreti e faccendieri del luogo. Durante le ispezioni, anche subacquee, non emergono falle però un filmato amatoriale mostrerà la presenza di una strana apertura sulla fiancata sinistra. Da qui l’ipotesi che dietro l’allagamento della stiva ci sia un tentativo doloso di affondare la motonave. Un passo indietro: nel 1988, per conto del governo italiano, la Jolly Rosso, così si chiamava allora, riporta dal Libano novemila fusti di rifiuti tossici-nocivi illegalmente esportati a Beirut da aziende italiane. Rimane in disarmo nel porto di La Spezia per due anni poi cambia nome. Il tentativo di affondarla, finito male sulle spiagge consentine, è una messinscena? Oppure è proprio lì che deve finire il suo misterioso carico? Quelle coste, è certo, in quel periodo, sono teatro di continui seppellimenti. Lì vicino ci sono delle discariche e le indagini si concentrano in particolare su alcuni scavi. Testimoni affermano che due mesi dopo l’arenamento della Rosso alcuni camion di notte hanno trasportato rifiuti da Formiciche fino nell’entroterra: in località Grassulio e Foresta di Serra d’Aiello, e lì li avrebbero sotterrati. Le analisi accerteranno in quei terreni alte concentrazioni di granulato di marmo e metalli pesanti sotto forma di fanghi industriali, mentre altri materiali sconosciuti sono ancora sul fondale di Formiciche. Dopo una prima archiviazione, l’inchiesta finisce alla Procura di Reggio Calabria nelle mani del pm Francesco Neri e del capitano di fregata Natale De Grazia: sono i primi a fare sul serio. L’indagine si allarga ed entra in scena il faccendiere Giorgio Comerio. Ma, fatto assai più importante, la Rosso entra nell’elenco delle navi sospette, come la Rigel affondata in circostanze poco chiare nel 1987 a largo di Capo Spartivento, forse con un carico di materiali radioattivi. L’ingegnere Giorgio Comerio nasce nel 1945 a Busto Arsizio, vive a Lugano, nel 1993 fonda una holding denominata Odm, Oceanic disposal management Inc., registrata alle Isole Vergini britanniche con sede in Svizzera. Ufficialmente l’Odm è frutto di un progetto della Comunità europea messo a punto per smaltire scorie nucleari, ma le attività dell’ingegner da Busto Arsizio sono sospettate di coprire il traffico internazionale di rifiuti. Il nome di Comerio, oltre a intrecciarsi con la vicenda Rosso e con la morte di Ilaria Alpi, è legato all’affondamento nel Mediterraneo di oltre quaranta navi cariche di veleni. Lui, tuttavia, si ritiene vittima di una montatura ambientalista: di Greenpeace che, nel 1995, denuncia il suo progetto di seppellire scorie nucleari in Sud Africa. L’ingegnere faccendiere si guadagna ben presto l’appellativo di “affossa-scorie”. È sua, infatti, l’idea di “sparare” a circa 80 metri al di sotto dei fondali marini, siluri, lunghi fino a 25 metri da 200 tonnellate ciascuno, riempiti di scorie radioattive. Per questo l’ingegnere si ritrova indagato per smaltimento illegale di rifiuti nucleari tossico-nocivi. Tutto comincia quando a un controllo doganale a Chiasso, ai confini con la Svizzera, la guardia di finanza ferma un socio di Comerio, Elio Ripamonti, che ha con se i progetti dei penetratori che l’ingegnere sta ideando. Ne vuole costruire 35mila e ha già individuato, contattando una cinquantina di paesi, tra questi Capo Verde, Zaire, Congo, Sierra Leone, Zambia e Somalia, 80 siti di inabissamento e 12 aree ottimali dove sotterrare rifiuti. Il passo è breve. Quei penetratori, i rapporti tra Comerio e strani personaggi portano gli inquirenti della Procura di Reggio Calabria a delineare inquietanti scenari. In più Comerio, scrive la guardia di finanza in un rapporto del 1998, è interessato, per conto di un ente di Stato iraniano, all’acquisto della Jolly Rosso, a bordo della quale verranno rinvenuti documenti e mappe riconducibili alle attività dello stesso faccendiere. Tuttavia la trattativa d’acquisto con la Ignazio Messina non verrà mai conclusa. Il Parlamento comincia a occuparsi di lui, in particolare la commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Si indaga anche sui traffici di armi tra paesi esteri, sulla Somalia e sui rapporti tra Comerio e Ali Mahdi, uno dei signori della guerra somala. Chi è veramente Comerio? Il Sismi, il servizio segreto militare, lo considera un truffatore, un millantatore, ma intanto si parla anche dei suoi contatti con i servizi argentini e di una partita di telemine per affondare tre incrociatori della marina britannica alle Falkland. È proprio nel corso di una perquisizione in casa di Comerio, a Garlasco, siamo nel 1995, viene fuori il certificato di morte di Ilaria Alpi - gli inquirenti troveranno anche altri documenti riguardanti la Jolly Rosso, e un’agenda del 1987 dove c’è un appunto “lost the ship” (la nave è persa) che riguarda proprio la Rigel -. Quel certificato, lo ha detto di recente lo stesso pm Neri di fronte alla commissione parlamentare che indaga sulla morte di Ilaria Alpi, è dentro una cartella gialla con la scritta “Somalia”. Il certificato, emesso forse dal Comune di Roma, viene sequestrato e acquisito agli atti dell’inchiesta di Reggio Calabria. La commissione, seguendo le indicazione del pm Neri, andrà a Reggio Calabria a cercarlo ma dentro quei fascicoli non c’è più. «Non è mai esistito - dirà durante un’audizione nel luglio scorso lo stesso presidente della commissione, Carlo Taormina - né è stato mai trasmesso ad alcuna altra autorità». Che fine ha fatto il certificato di morte trovato nello studio di Comerio? Torniamo alla motonave Rosso. Il sospetto che trasportasse rifiuti tossici e radioattivi è sempre più forte. Il procuratore Neri va avanti nella sua inchiesta, ma avviene qualcosa che determinerà inevitabilmente le conclusioni. Il suo pool è a un passo dalla verità quando, in circostanze ancora poco chiare, muore il capitano Natale De Grazia. È un onesto inquirente, un ufficiale di marina, che tenta di fare il proprio dovere. De Grazia è scrupoloso e con determinazione indaga per mesi: ha il delicato compito di riepilogare gli affondamenti delle navi nei mari Tirreno e Ionio. Deve ricostruire le rotte, localizzare i relitti e dare un nome a ognuna di quelle navi. Per fare questo gira in lungo e in largo il Mediterraneo. Va quasi fino in fondo il coraggioso capitano e scopre le rotte dei rifiuti che passano per La Spezia e per la Calabria. L’ufficiale si avvicina troppo alla verità. Il 13 dicembre del 1995 è in auto, con i suoi colleghi, sta andando a Massa Marittima e La Spezia. De Grazia ha un appuntamento molto importante: deve verificare alcuni registri nautici e sequestrare i piani di affondamento di 180 navi partite da Massa. A La Spezia deve interrogare l’equipaggio della motonave Rosso. Non ci riuscirà. Morirà all’età di 39 anni durante una sosta, a Nocera Inferiore, stroncato da un arresto cardiocircolatorio. Una morte sospetta, che farà arrestare l’intera attività investigativa della Procura di Reggio Calabria. A Massa Marittima, gli inquirenti ci torneranno dopo la sua morte, ma la capitaneria nel frattempo si è allagata e quei documenti non si trovano più. Il 14 novembre 2000 il Tribunale di Reggio Calabria archivia definitivamente l’inchiesta sul caso Jolly Rosso. La verità non è ancora venuta fuori. Passano tre anni. A ricominciare da capo è chiamata, per competenza territoriale, la Procura di Paola con il sostituto Francesco Greco. Ci sono nuove prove, ci sono dei testimoni, la presenza in mare, vicino alla Rosso, di un’altra motonave gemella, la Jolly Giallo, che avrebbe avuto un ruolo. Anche questa volta c’è la volontà di andare fino in fondo, mancano però fondi e uomini per indagare e il rischio prescrizione incombe su questa difficile inchiesta. La partita si allarga ed è ancora aperta.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 23 dicembre 2005 [pdf]

usticaTutto ruota attorno ad una sigla: Kilo-Alfa-Zero-Uno-Uno. È la chiave di volta che permette all’edificio di sostenersi. Nell’affaire Ustica scoprire qual è la chiave di volta significa scoprire l’elemento su cui convergono tutte le forze. Perché eliminandola l’edificio crolla, miseramente, e quello che fino a un secondo prima era la causa della salvezza,un secondo dopo diventa la causa della rovina. La verità, lo si è detto per anni, è nei tabulati dei radar - quelli che la storia ci ha lasciato - e tra i rottami di quel relitto, che ancora dimorano in un hangar della base di Pratica di Mare e che presto finiranno nel Museo della Memoria a Bologna. Dall’analisi dei dati radar, per esempio quelli del sito militare di Marsala, in Sicilia, emergono, da sempre, una serie di evidenze e di azioni coerenti. Gli esperti che li avevano studiati in precedenza avevano avuto una visione limitata, fra le 20.36 e le 21.02 (il disastro era avvenuto alle 20.59), mentre, grazie al supplemento di indagine radaristica che volle il giudice Rosario Priore, fu possibile avere i dati di tutto il nastro: dalle 11.15 del 27 giugno 1980 fino alle 4.15 del 28.Così,venticinque anni dopo quella tragedia, quando gran parte dell’opinione pubblica ha dimenticato Ustica e i suoi mille misteri, si può arrivare a scoprire un pezzetto di verità. Sì, dal 1980 al 2005. Tuttavia non è così facile. Bisogna far combaciare le tessere provenienti da due elementi assai diversi:un ammasso di lamiere, recuperate in fondo al mare profondo tre chilometri e mezzo, e una serie infinita di lettere e numeri. Lì, in quei tabulati, ci sono due strani oggetti che volano davanti alla Sardegna a venti chilometri di quota, che si spostano da est a ovest a velocità bassissima, meno di cento chilometri orari, o addirittura si fermano. Per anni, chi doveva rispondere ha sempre fornito la stessa spiegazione: sono entrambi palloni sonda. Il primo oggetto definito un pallone è quello che sui radar viene chiamato AJ450: quello che “nasce” venti minuti prima del disastro e che “muore” nello stesso momento. Lo definiscono così in un’inchiesta dell’Aeronautica militare sollecitata nell’89 dall’allora ministro della Difesa. Il secondo oggetto è KA011, è la nostra traccia Kilo-Alfa-Zero-Uno-Uno. KA011 appare sugli schermi radar tre ore dopo replicando, in tutto e per tutto, il primo oggetto: di AJ450 replica quota, direzione, posizione e velocità. Un altro tassello, poi, è nel “nastro dei misteri”, quello contenente le registrazioni delle telefonate in entrata e in una uscita da Marsala la sera del disastro. Nastro ascoltato per la prima volta solo nel marzo del ’90. Qui il sergente Salvatore Loi, parlando con un altro militare, identifica KA011 come un pallone sonda. È una balla. I palloni stratosferici per la ricerca scientifica, utilizzati anche dal Cnr, decollavano dalla Sicilia e venivano recuperati in Spagna o addirittura in Amazzonia. Non potevano volare verso est, verso il Medio Oriente. Ma non è tutto. Guardando bene sui tracciati e applicando un fattore di scala pari a “6”, AJ450 diventa la traccia radar di un aereo che intercetta il Dc9 proprio nel momento in cui viene colpito. AJ450 potrebbe essere perciò protagonista di un’operazione di guerra elettronica. Un aereo dotato di apparecchiature elettroniche in grado di ingannare il radar di Marsala, mostrando quota,velocità e posizione diverse da quelle vere, insomma travestendosi da pallone sonda. KA011 compie un’azione gemella: tre ore dopo replica la scena dell’aggressione. Quale stazione radar lo ha fatto e perché? Cos’è KA011? Una sonda? La traccia è stata fatta da Marsala? Non è possibile. Marsala ha il codice di identificazione “J”, mentre questo è “KA”. E i palloni non vanno a est, vanno ad ovest, e non possono stare fermi in cielo, e per diverse ore, come KA011. Durante l’inchiesta non si approfondisce e ciò che afferma il sergente Loi al telefono diventa una verità. Fu lo stesso sergente, a ottobre dell’89, nel corso di un interrogatorio, a fare la “rivelazione” sul volo libico su cui avrebbe dovuto trovarsi Gheddafi, circostanza confermata pubblicamente dallo stesso leader libico nel gennaio del ’90.Un’altra icona di questa inchiesta. Peccato che di quel volo, però, non si sia mai trovato il più microscopico indizio sui nastri radar. La sigla “KA”, lo dice la Nato, è l’identificatore della stazione radar di Torrejon, in Spagna, vicino Madrid. Torrejon è la sede del 401th Tactical Fighter Wing dell’US Air Force. Ora un possibile scenario: lì, a Torrejon, qualcuno, tre ore dopo il disastro, stava già lavorando per identificare il probabile colpevole, replicando l’operazione di inganno elettronico messa in atto da AJ450. A questo punto la chiave di volta. Applicando lo stesso fattore di scala “6” ad entrambe le tracce, sia sul piano orizzontale che sul piano verticale,entrambi diventano aerei che vanno ad intersecare la rotta del nostro Dc9 nel momento in cui il velivolo civile, con a bordo 81 innocenti, perde i contatti con il mondo. Solo che la prima (AJ450) lo fa realmente, mentre la seconda (KA011) è una replica fatta tre ore dopo dal radar di Torrejon e trasmessa a Marsala e di qui al comando centrale di Martina Franca. Se parlassimo di uno o più missili che vanno a colpire il Dc9, grazie a questa ricostruzione di rotte e di quote si può misurare l’angolo di salita e d’impatto. È il raccordo fra le lamiere contorte e le file di lettere e numeri. L’elemento su cui potrebbero convergere tutte le forze. A Marsala dovevano sapere benissimo che “KA” era l’identificatore di Torrejon: perché allora depistarono raccontando la balla del pallone? A marzo del ’90 c’era chi sapeva, l’indagine stava per essere affidata a Priore, la commissione Stragi stava lavorando. Ecco perché il “nastro dei misteri” non era stato ascoltato prima di allora, forse perché prima non c’era! La verità si può cercare analizzando i punti rimasti inesplorati, anche venticinque anni dopo, anche se questo vuol dire rimettere in discussione gran parte delle “verità” appese come quadri sul muro di gomma.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 24 giugno 2005 [pdf]