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Riemerge dagli annali ingialliti, grazie alle parole di un "infame" della banda della Magliana, una storia che in Sabina in molti ricorderanno e che, altri ancora, preferirebbero saperla definitivamente archiviata. Sono gli 8 miliardi del vecchio conio, a dirla con le parole di Bonolis, concessi nei primi anni '90, attraverso un fido, dalla Cassa di risparmio di Rieti al boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti. Una storia chiacchierata e risaputa: roba da archeologia giudiziaria. Una muffa finita anche nelle pagine di alcune relazione della Commissione parlamentare antimafia. Carte ingiallite sì, ma ancora oggi rintracciabili su Internet, come quelle scritte nel corso di un decennio di indagini patrimoniali condotte dalla Dia e dalla Finanza. Così la banca reatina si è ritrovata accusata, anche in ambito parlamentare, di compiere strane attività finanziarie e movimenti in "odor di mafia" che andavano dal riciclaggio di danaro sporco all'erogazione non motivata di fidi a persone "sospette di far parte di organizzazione criminali". Nicoletti, si saprà poi, era una di queste: un "cliente", certamente non uno qualunque, a cui la Cassa di risparmio concesse tramite l'agenzia numero uno - quella che si trova tuttora a piazza Montecitorio a Roma - un fido di 8 miliardi, che nel '90 non erano bruscolini. Glielo concesse trattandolo con i guanti bianchi, nonostante il boss fosse stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e sottoposto a misure di prevenzione. Difficile scambiare il cassiere di una banda di criminali per un affidabile imprenditore, ma così andò, probabilmente alla direzione della banca non leggevano i giornali. Oggi questa storia è tornata a rivivere sulle colonne di Repubblica (edizione del 14 febbraio scorso), vent'anni dopo, con un'inchiesta dal titolo "Finanza sporca e omicidi, torna la banda della Magliana" a firma di Carlo Bonini che ripercorre la carriera di Nicoletti, della sua banda e delle sue misteriose fortune, tornando anche sul quel fido concesso senza batter ciglio. Le novità arrivano dalle parole di un pentito, Antonio Mancini, un altro della batteria criminale, uno di quelli "seri" che terrorizzò la Capitale per un ventennio. "Nino l'accattone", così è soprannominato Mancini, agli occhi di chi non lo conosce potrebbe sembrare uno uscito direttamente dalle pagine di "Romanzo criminale" - come "il Freddo" o "Libano" - invece è uno in carne e ossa, ed è anche l'unico che parla. Parla, l'''infame'', del sequestro di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno '83, e parla anche di un fiume di danari sporchi (1 miliardo di euro solo quelli riconducibili a Nicoletti). Una storia, che riannodando i fili, arriva ai giorni nostri e finisce dritta dritta agli affari, più recenti, del "furbetto" Danilo Coppola.

di Fabrizio Colarieti per Il Messaggero [articolo originale]

134357228-7d8ac181-bffe-41ea-81a6-add3e0ab1030Vent’anni. Come tanti gialli italiani il delitto di via Poma c’ha tutto questo tempo ad approdare in un’aula di tribunale. Tanti ne sono trascorsi dalla morte della giovane Simonetta Cesaroni, uccisa a coltellate il 7 agosto del ’90. Sul banco degli imputati siederà un solo presunto assassino: Raniero Busco, l’ex fidanzato della ragazza, oggi 45enne. L’unico, per esclusione, a dover rispondere di omicidio volontario secondo le indagini condotte della procura di Roma. Il dibattimento - atteso dalla famiglia Cesaroni e dagli esiti per nulla scontati secondo la difesa di Busco - comincerà il prossimo 3 febbraio nell’aula bunker di Rebibbia davanti alla terza Corte d’Assise di Roma.
Questa storia vale la pena raccontarla tutta, vent’anni dopo, da quel martedì 7 agosto 1990. Roma è schiacciata dall'afa, la colonnina di mercurio è inchiodata sulla tacca dei trenta gradi e il meteo dice che in serata potrebbe esserci qualche scroscio d’acqua. Fa caldo al civico due di via Carlo Poma, un palazzone a tre cortili, stile fascista, nel quartiere Prati. Simonetta Cesaroni, 21 anni ancora da compiere, sta lavorando nell’ufficio dell’Associazione italiana alberghi della gioventù. In quello stabile a Prati ci va ogni tanto, solo di pomeriggio, per conto della Reli Sas per cui lavora come segretaria contabile. È una ragioniera, un lavoretto senza troppe pretese che gli permette di sognare una vita indipendente. Fa talmente caldo tra quelle quattro mura che la ragazza se ne sta seduta davanti al computer senza indossare né scarpe né calzini. A rendere meno pesante l’aria c’è solo un ventilatore che gli gonfia i capelli e fa volare qua e là le carte sulla scrivania. In quell’ufficio non c’è mai nessuno di pomeriggio, come per le strade di Roma, deserte dopo l’ubriacatura dei mondiali di calcio, archiviati e persi da appena un mese. Sono andati tutti in ferie, tranne lei.
È davvero una bella ragazza, Simonetta. Acqua e sapone, senza troppi grilli per la testa, di sani principi, cresciuta nel quartiere Don Bosco in una famiglia modesta: il papà è un autista dell’Acotral, la mamma fa la casalinga. Da qualche tempo ha una relazione altalenante, non idilliaca, con Raniero Busco, un 25enne operaio romano che lavora all'Alitalia.
Quell’ufficio, dove Simonetta sta trascorrendo il pomeriggio, si trasforma nella scena di un crimine tra le 17.30 e le 18.30 di quel 7 agosto. Nessuno sente nulla. La 21enne, dopo essere stata stordita da un colpo in testa, viene uccisa con ventinove coltellate. Una ferocia crudele e inaudita. Il cadavere è sul pavimento, vicino l’ultima stanza in fondo al corridoio, quasi completamente nudo, indossa solo una canottiera arrotolata verso l’alto e il reggiseno. Il coroner dirà che chi l'ha ammazzata, tuttavia, non ha abusato di lei. A ucciderla è stato quel colpo sull'arcata sopracciliare, poi la furia: le ventinove coltellate inferte dovunque. Vibrate con un tagliacarte sul petto, sulla giugulare, sul cuore, sul fegato, sulle orbite degli occhi e per ben quattordici volte sul pube. Il reggiseno copre solo in parte i seni, una delle coppe fa vedere un capezzolo, quello sinistro, che intorno ha una lesione a forma di "V", che sembra tanto un morso.
Gli inquirenti dicono che Simonetta si è alzata, forse proprio per aprire la porta al suo carnefice. Eppure in quell’ufficio pare tutto in ordine: le scarpe sono una accanto all’altra vicino alla scrivania ma mancano i vestiti che la ragazza indossava (un paio di fuseaux bianchi e una camicetta) e le chiavi dell'appartamento, utilizzate dall'assassino per richiudere a diverse mandate la porta. Il colpevole ha ripulito tutto, molto accuratamente. È un delitto perfetto.
Passano diverse ore prima che qualcuno si accorga che la ragazza acqua e sapone è stata uccisa. Intorno alle 20.30 Paola, la sorella maggiore di Simonetta, comincia a preoccuparsi perché sua sorella di solito è a casa per le 20. Con il fidanzato, Antonello Baroni, ripercorre inutilmente la strada fino alla fermata della metro Subaugusta dove avevano accompagnato Simonetta. Poi chiama Salvatore Volponi, il datore di lavoro della sorella, che però non conosce l'indirizzo di quell'ufficio. Sarà proprio Paola a trovarlo sull'elenco telefonico. A questo punto vanno in via Poma e costringono Giuseppa De Luca, la moglie del portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, ad aprire la porta dell’ufficio. Sono le 23,30 quando trovano il corpo di Simonetta in una pozza di sangue.
Ha un aspetto sinistro quel palazzone di via Carlo Poma, tra l’altro non nuovo a fatti di sangue. Sei anni prima del caso Cesaroni, era l’84, un’anziana aristocratica, Renata Moscatelli, fu uccisa proprio lì dentro. Qualcuno la soffocò sul letto, con un cuscino, e nessuno ha mai scoperto chi fu a ucciderla. Più di recente, il 14 novembre 2009, sempre lì, un noto avvocato, Massimo Buffoni, si è sparato in testa nel suo studio. Poi c’è il solito zampino dei Servizi, che più volte faranno capolino in questa storia. Prima per i presunti rapporti tra l’Associazione ostelli e alcuni funzionari del servizio segreto civile, poi per la probabile presenza in quello stesso palazzo di una sede coperta del Sisde. I portieri dei grandi condomini, si sa, ne sanno una più del diavolo e Pietrino Vanacore, il portiere di quel misterioso condominio, quei giorni se li ricorderà per tutta la vita. Il 10 agosto scattano le manette ai suoi polsi perché sarebbe coinvolto nel delitto. Ma a uccidere Simonetta, secondo la procura, non è stato il portiere bensì Federico Valle, il nipote dell'architetto Cesare Valle, che abita in quel palazzo. Valle è coinvolto anche dalle dichiarazioni dell'austriaco Roland Voller, un tipo strano, dicono legato ai Servizi, implicato anche in un altro misterioso delitto, quello della contessa Alberica Filo della Torre, avvenuto nel ‘91 all'Olgiata. L’accusa, per Valle e Vanacore, però non regge (verranno prosciolti definitivamente nel 1995). Poi c’è un altro sospettato, è Salvatore Volponi, il datore di lavoro della ragazza, ma anche lui esce di scena qualche mese dopo. Tutto deve ricominciare dall'inizio e di anni, prima che il delitto di via Poma torni in prima pagina, ne passano dodici.
A febbraio 2005, la procura tira le somme e dispone il test del Dna per 31 sospettati, tra loro c'è anche l’ex fidanzato di Simonetta, Raniero. Le indagini, dopo essere ripartite daccapo, arrivano a una svolta diciassette anni dopo il delitto: la comparazione del Dna estratto dalla traccia di saliva repertata sul reggiseno di Simonetta è compatibile solo con il codice genetico del suo ex fidanzato che si ritrova indagato. C’è traccia del suo Dna anche in una macchia di sangue, misto a quello di Simonetta, e su Busco pesa anche un alibi che non tiene: sotto interrogatorio disse che quel pomeriggio l'aveva passato con un amico, ma questi negò. A dicembre 2008 viene prelevata anche l’impronta della sua arcata dentaria per confrontarla col segno a forma di "V" fotografato sul capezzolo sinistro della vittima. La struttura dentaria di Busco, secondo i periti, è compatibile con quella ferita. È maggio 2009 e il pm Ilaria Calò ha in mano tre indizi: Raniero Busco deve essere rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio volontario (richiesta accolta dal gup il 9 novembre 2009). Ma la verità è ancora tutta da scrivere.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 4 febbraio 2010 [pdf]

securityNelle grandi aziende è prassi sempre più consolidata. Le security private assomigliano sempre di più a vere e proprie strutture parallele di intelligence. "Eserciti Spa" con grandi disponibilità di risorse tecnologiche, soldati e know how al servizio di un solo uomo: il padrone. Lo dimostrano circa quattro anni, per affacciarsi solo sul recente passato, di scandali e indagini. In più ci si è messo anche il Governo che a colpi di timbri “top secret” ha di fatto certificato che certi rapporti, tra pubblico e privato, esistono e non sono poi così infrequenti.
Le consorterie della sicurezza privata, al soldo delle grandi aziende, violano ogni giorno la legge e la privacy dei propri dipendenti, dei clienti, dei concorrenti, dei cittadini e di chiunque, anche per pura coincidenza, inciampi nei loro affari. Li schedano, li intercettano, sbirciano nella loro posta elettronica, li pedinano e li filmano. In nome di una “ragione aziendale”, che assomiglia tanto alla “ragione di Stato”, che calpesta ogni diritto e che va oltre, anche l’immaginabile. È l’esercito degli ex, delle agenzie investigative e delle risk agency. Pubblici dipendenti in aspettativa, ex carabinieri, ex poliziotti, ex finanzieri, ex spioni. Dopo la pensione o a metà carriera, i più furbi, hanno una chance per non annoiarsi: diventare un consulente nel ramo della sicurezza privata. Un esercito invisibile di “barbe finte” pronte a tutelare gli interessi dei top manager e ad accontentare ogni loro capriccio.
Sono strutture efficienti, snelle, flessibili, soggette ad alcun controllo, se non quello dei vertici aziendali. Rispecchiano un modello ormai consolidato negli Stati Uniti, dove la sicurezza pubblica e privata vanno ormai a braccetto, anche nei teatri di guerra. Producono veline, dossier, analisi e rumors, a volte a metà strada tra il pettegolezzo e il gossip. Tutto fa brodo e un giorno potrebbe servire. Strutture che, in nome della legge del ricatto, che vige in un mercato ormai avvelenato, in alcuni casi hanno alimentato pericolose “macchine del fango”. Utilizzare ogni mezzo per raggiungere ogni tipo di obiettivo, questa la filosofia aziendale di chi si circonda di un esercito privato.
In quei dossier c’è dentro di tutto: dalle corna alle debolezze del diretto concorrente, passando per le sempre utili informazioni, meglio se piccanti, su politici, magistrati e, perché no, anche giornalisti. Una brodaglia maleodorante, pronta all’uso, che riposa negli archivi e nei server delle grandi corporation. La legge, quella repubblicana, vieta le schedature, le banchi dati, la raccolta delle informazioni con mezzi e tecniche che solo la polizia giudiziaria con l’avallo della magistratura può utilizzare. Ma a leggere le carte - quelle che raccontano prodezze e marachelle borderline delle security aziendali - ci si rende conto che la legge vige solo fuori dalle mura delle aziende. Se poi è necessario violarla, anche al di fuori da quei confini, non c’è problema, per il bene della “ditta”, ci si tappa il naso.
Le cronache raccontano anche che i Servizi, quelli che dovrebbero difendere il Paese, più di una volta hanno strizzano l’occhio ai Servizietti privati. Basta ricordare lo scandalo che coinvolse negli anni Settanta il famoso 007 privato Tom Ponzi (assolto anni dopo). La storia è piena di strani rapporti, a base di scambi bilaterali di informazioni, favori e dossier, tra le security private e i Servizi segreti. Un’intimità tanto stretta quanto insindacabile che ha spinto il Governo, il 22 dicembre scorso, ad apporre il segreto di stato sui rapporti tra un apparato statale, il Sismi (oggi Aise), e un’azienda privata, Telecom Italia. La vicenda è nota e ha visto il Presidente del Consiglio confermare il “top secret” opposto dal numero tre del controspionaggio militare, Marco Mancini, davanti al gup del tribunale di Milano che lo stava processando (in concorso con altri) per rivelazione di segreto d'ufficio, associazione a delinquere e corruzione nell’ambito del procedimento sui dossier illegali dell’ex sicurezza Telecom. Mancini, per difendersi, dovrebbe violare il segreto, parlando della sua attività e dei suoi rapporti che avrebbe avuto con Giuliano Tavaroli e i suoi colleghi al soldo di Marco Tronchetti Provera. Il Premier, l’unico che poteva avallare il silenzio dell’agente segreto, ha decretato che tali rapporti - e più in generale i criteri di gestione e gli assetti organizzativi dei Servizi, in quanto elementi riferibili “alle relazioni internazionali tra servizi e agli interna corporis degli organismi informativi” - sono segreti. Violare il segreto - ha scritto il premier al gup Mariolina Panasiti - “potrebbe da un lato minare la credibilità degli organismi informativi nei rapporti con le strutture collegate, dall'altro pregiudicarne la capacità ed efficienza operativa, con grave nocumento per gli interessi dello Stato”.
Un’altra storia, anch’essa recente, riguarda poi, un’altra compagnia telefonica, la Wind. È il caso di Salvatore Cirafici, agli arresti domiciliari su ordine del gip di Crotone dal 12 dicembre scorso. L’ex responsabile delle intercettazioni telefoniche e dei rapporti con l’autorità giudiziaria della compagnia dell’egiziano Naguib Sawiris, secondo l’accusa, avrebbe utilizzato e fornito ad altri sim che risultavano inesistenti, quindi potenzialmente sicure, e spifferato a un indagato che il suo cellulare era sotto controllo. Tutto questo è emerso nel corso di un’indagine su presunte irregolarità nella realizzazione della centrale turbogas di Scandale nel crotonese che vede indagati, tra gli altri, anche l’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio e l’ex presidente della Regione Calabria, attuale vicepresidente dell’autority per la Privacy, Giuseppe Chiaravalloti.
L’ultima prodezza riguarda un’altra internal security, quella della Coop. Una storia davvero inquietante, che sembra uscita da un romanzo di Ian Fleming, i cui contorni sono stati rivelati dalle colonne di Libero, da Gianluigi Nuzzi e di cui, a quanto pare, la magistratura dovrà occuparsi. Secondo quanto ha riferito il quotidiano, infatti, direttori di supermercati, manager, sindacalisti, ma anche cassieri e magazzinieri di diverse Coop della Lombardia, sarebbero stati spiati dall’azienda, con l’utilizzo di microspie, microtelecamere e “sonde” nei centralini telefonici. Si parla di centinaia di conversazioni ascoltate, registrate, filtrate e analizzate, in nome, così pare, di un altrettanto scellerata politica aziendale.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 4 febbraio 2010 [pdf]

Un’ombra. Di lui si dice che potrebbe essere ancora in servizio, ma anche che sarebbe morto di tumore. Aveva, o forse ha ancora, il viso deforme: un volto sfigurato, orrendo, paragonabile solo a quello di un mostro. “Faccia da mostro”, così lo chiamano giù in Sicilia, e così lo ha chiamato recentemente anche Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, don Vito, quello del “papello” e della trattativa tra Stato e mafia su cui si indaga ancora. Dopo il super latitante Matteo Messina Denaro, “faccia da mostro”, oggi è il ricercato numero uno.
L’innominabile. Era un agente del Sisde, il servizio segreto civile (oggi Aisi, ndr). Era a Palermo. Nelle storie di mafia, “faccia da mostro”, c’è dentro fino al collo e a quanto pare gli inquirenti, che da anni lo cercano, non lo hanno ancora identificato. Forse a quel volto, di cui esisterebbe solo un confuso identikit, non si potrà mai dare un nome, perché quando qualcuno tenterà di svelarlo, come accade spesso, il segreto coprirà per sempre la sua identità. Il suo nome, anzi il suo soprannome, - legato a quelle inconfondibili caratteristiche del volto dovute, almeno così pare, a un tumore e a una lunga serie di interventi chirurgici - salta fuori la prima volta nell’89. Nessuno lo nomina, la sua identità non è mai stata svelata sulla stampa, ma tutti parlano di quell’uomo misterioso che, come un’ombra, entra ed esce dalle oscure vicende siciliane.
L’Addaura. La prima a parlare di lui è una donna che poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti, dentro un’auto, insieme a un altro individuo. La donna se lo ricorda proprio perché il suo volto era inguardabile. Era il 21 giugno 1989, Falcone aveva affittato per il periodo estivo quella villa sulla costa palermitana. Intorno alle 7.30 tre agenti di polizia trovano sugli scogli, a pochi metri dall’abitazione, una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera e una borsa sportiva blu contenente una cassetta metallica. Dentro c’è un congegno a elevata potenzialità distruttiva composto da 58 candelotti di esplosivo. La bomba non esplode, l’attentato fallisce. Qualche ora dopo, in quella villa, Falcone doveva incontrare due colleghi svizzeri: il pm Carla del Ponte e il giudice istruttore Claudio Lehmann, in Sicilia per le indagini sul riciclaggio di denaro. La bomba era per loro. “Faccia da mostro”, dice la testimone, quella mattina era lì.
Il confidente. Ne parla anche la “gola profonda” Luigi Ilardo, il mafioso, cugino e braccio destro del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri, ma un anno dopo gli tapparono per sempre la bocca. Ilardo confidò al colonnello Michele Riccio del Ros che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, uno chiacchierato. Il confidente, parlando dello strano agente segreto, disse agli inquirenti: «Di certo questo agente girava imperterrito per Palermo. Stava in posti strani e faceva cose strane».
Le morti sospette. “Faccia da mostro” è legato anche a una lunga scia di sangue e di strane morti, come l’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Agostino dava la caccia ai latitanti, pare anche per conto del Sisde, e sembra avesse informazioni sul fallito attentato all’Addaura. Le indagini non hanno mai chiarito, fino in fondo, come sono andate le cose, però sembra che l’agente, poco prima di morire, avesse ricevuto in casa una strana visita, quella di un collega con la faccia deforme. A dirlo è suo padre, Vincenzo, che riferì agli inquirenti che un giorno notò “faccia da mostro” vicino l’abitazione del figlio. Vuole giustizia e cerca la verità da anni, Vincenzo Agostino, non si taglia la barba dal giorno in cui gli hanno ucciso il figlio e la nuora, che era incinta di cinque mesi. Per lui, quell’uomo, era l’inguardabile: «Quell’ uomo è venuto a casa mia, voleva mio figlio. Quel tizio non è soltanto implicato nei fatti di Capaci e di via D’Amelio, ha fatto la strage in casa mia, quella in cui sono morti - disse ai magistrati il padre di Agostino - mio figlio Nino, mia nuora e mia nipote. Due persone vennero a cercare mio figlio al villino. Accanto al cancello, su una moto, c’era un uomo biondo con la faccia butterata. Per me era faccia di mostro». Un altro pesante sospetto lega “faccia da mostro” a un altro delitto, quello dell’ex agente di polizia Emanuele Piazza. Il suo nome in codice era “topo”, collaborava con il Sisde, era amico di Nino Agostino, ma non era ancora un effettivo. Figlio di un noto avvocato palermitano, era un infiltrato e dava la caccia ai latitanti quando, il 15 marzo 1990, scompare nel nulla. Molti anni dopo si saprà che fu “prelevato” con un tranello dalla sua abitazione da un ex pugile, vecchio compagno di palestra, portato in uno scantinato di Capaci, ucciso e sciolto nell’acido. Cercava la verità sulla morte del suo amico Antonino Agostino, forse l’aveva anche trovata, e anche lui sapeva qualcosa sull’Addaura.
La trattativa. Poi, più recentemente, è Massimo Ciancimino, a parlare dell’agente segreto inguardabile e innominabile. Ciancimino junior, però, è in grado di fornire ai magistrati di Caltanissetta e Palermo - quelli che indagano tuttora sugli attentati del ‘92 e sulla trattativa tra Stato e mafia - anche nomi e numeri di cellulare di agenti in contatto con il padre. Quei riferimenti li tira fuori dalle agende del padre, ricche di numeri che contano. Parla di un certo “Franco” e di “Carlo”, ma forse erano i nomi di copertura di un solo 007. Ma Massimo Ciancimino conferma ai magistrati anche che l’uomo con la faccia di un mostro era in contatto con suo padre da anni, ma non ne conosce l’identità. Conferma pure che i contatti con gli spioni sono proseguiti anche dopo la morte del padre e, più di recente, quando decise di consegnare ai magistrati il famoso “papello” con le richieste di Cosa nostra.
L’agenda rossa. Ancora ombre, il 19 luglio 1992, pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso Paolo Borsellino e i suoi angeli custodi. Le istantanee sono diverse e ritraggono numerosi agenti in borghese che si muovono in quella terribile scena. Uno di loro - uno dei pochi identificati analizzando quei fotogrammi - era il tenente colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, accusato (e poi prosciolto) di aver sottratto l’agenda rossa, quella dove il giudice annotava ogni cosa e che teneva sempre con sé. Quell’agenda è scomparsa, l’ufficiale non l’ha rubata, pur essendo stato fotografato con in mano la borsa del giudice. Dentro quella borsa, di fatto, l’agenda non c’era e molti di quei volti fotografati in via D’Amelio non hanno ancora un nome, compreso quello di un altrettanto misterioso personaggio che sembra allontanarsi da quell’inferno tenendo qualcosa sotto la giacca.
Le indagini. “Faccia da mostro”, in Sicilia, dopo Matteo Messina Denaro, oggi è il ricercato numero uno. Lo cercano i magistrati di Palermo e Caltanissetta, che il 18 novembre scorso hanno chiesto ai vertici del Dis la documentazione sugli eccidi di Capaci e via D’Amelio e informazioni su alcuni agenti sotto copertura che potrebbero avere avuto un ruolo nel fallito attentato all’Addaura e sugli omicidi di Emanuele Piazza e Nino Agostino.

Il Punto - di Fabrizio Colarieti - 20 gennaio 2010 [pdf]