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Si complica, e non di poco, la vicenda dei due Marò del battaglione San Marco fermati in India con l’accusa di aver ucciso, il 15 febbraio al largo delle coste del Kerala, due pescatori indiani scambiati per pirati del mare. Il magistrato di Kollam il 16 aprile ha esteso di altri 14 giorni la carcerazione preventiva dei Marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, detenuti nella prigione di Trivandrum. Il prolungamento dei termini di custodia giudiziaria, secondo quanto si è appreso, sarebbe stato richiesto dalla polizia indiana che avrebbe ancora bisogno di tempo per completare le indagini, prima di decidere per un eventuale rinvio a giudizio.
Sul conto dei due fucilieri del San Marco, che rischiano la pena capitale, pesano, più che altro, le conclusioni della perizia balistica, condotta in un laboratorio della polizia scientifica indiana, secondo la quale a uccidere i due pescatori sarebbero stati i fucili d’assalto Beretta in dotazione all’unità militare italiana imbarcata sulla petroliera Enrica Lexie. Perizia, quest’ultima, fortemente contestata in Italia, anticipata dalla stampa indiana, ma non ancora trasmessa alla Farnesina, e, ora, oggetto di una rilettura compiuta, per conto del “Comitato Cittadino Marò Liberi”, da un esperto, ex consulente del caso Ustica, secondo il quale a sparare non sarebbero stati Latorre e Girone.
Sulla vicenda, ha confermato il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, a margine del vertice Nato tenutosi a Bruxelles la scorsa settimana, «i contatti con i principali partner sono continui, in particolare con il ministro degli esteri danese, che è presidente di turno della Ue. L’azione diplomatica prosegue a tutto campo - ha aggiunto il titolare della Farnesina - e con la massima intensità». Terzi ha confermato, poi, che l’interessamento dell’Unione europea, in particolare dell’alto rappresentante della politica estera Catherine Ashton, è forte. Nelle stesse ore il guardasigilli, Paola Severino, ha fatto sapere che il governo ha inoltrato all’India la rogatoria internazionale con cui chiede di acquisire i risultati degli accertamenti svolti dalle autorità del Kerala. Si tratta degli esami balistici (anticipati dalla stampa indiana ma non ancora trasmessi all’Italia) e dei verbali contenenti le dichiarazioni dei due Marò. In tal senso il ministro della Giustizia, intervenendo alla Camera il 18 aprile, ha confermato «il pieno impegno del governo» per riportare in Italia i due fucilieri, e ribadito, riprendendo quanto dichiarato dal collega Terzi, che la giurisdizione sulla vicenda «resta del nostro Paese». Il 15 marzo, ha spiegato il ministro, la Procura di Roma - che ha iscritto i due Marò nel registro degli indagati per omicidio volontario - «ha trasmesso al ministero della Giustizia il testo della rogatoria che, nella stessa giornata, è stata inviata alla Farnesina affinché‚ la trasmettesse alle autorità indiane».
Tuttavia c’è un ostacolo non facile da superare. Tra l’Italia e l’India non vi è un trattato di mutua assistenza giudiziaria, e, perciò, le richieste di rogatoria inoltrate dalla magistratura italiana sono trattate sulla base della cosiddetta «cortesia internazionale» e con offerta di «reciprocità per casi analoghi». Insomma la risposta degli indiani non è per nulla scontata e potrebbe essere oggetto di un baratto, semmai l’Italia abbia qualcosa da mettere sul piatto. Dunque il governo sta mettendo in campo tutte le sue forze, con un impegno sia politico diplomatico sia tecnico giuridico, in attesa di una risposta da Nuova Delhi, non dovuta ma di cortesia. Sulla sorte dei due Marò, inoltre, incombe anche il sospetto - già avanzato da Il Punto - che a complicare la faccenda ci si sia messa di mezzo anche la tragica vicenda di Franco Lamolinara, l’ingegnere sequestrato in Nigeria e ucciso, insieme al collega Chris McManus, nel corso di un blitz delle teste di cuoio inglesi l’8 marzo scorso. Un incidente diplomatico, con implicazioni d’intelligence, che ha raffreddato i rapporti tra Roma (orientata a trattare) e Londra (intervenuta con la forza). Non è un mistero, infatti, che Palazzo Chigi fosse già pronto a chiedere, e con tanto di cappello in mano, un intervento di Downing Street sulla vicenda dei Marò detenuti in India. La sorte dei Marò potrebbe essere legata a quanto la Corte Suprema di New Delhi deciderà il prossimo 8 maggio dopo aver ammesso (il 23 aprile) il ricorso presentato dall'Italia in merito all'incostituzionalità della detenzione dei due militari del San Marco. I tre giudici del massimo organo giudiziario indiano, accogliendo le argomentazioni presentate dal legale, Harish Salve, a proposito dell'illegittimità dell'arresto di Latorre e Girone, hanno chiesto al governo dell'Unione indiana e allo stato del Kerala di presentare una memoria. L'avvocato ha ribadito che l'incidente è avvenuto in acque internazionali, perciò il fatto è di competenza italiana, e che Kerala è incompetente a giudicare una disputa tra due Stati sovrani e in cui sono implicati dei militari. Il ricorso «per eccezione di giurisdizione», in cui si contesta l'applicabilità delle leggi indiane al caso della Enrica Lexie, era stato presentato anche all'Alta Corte del Kerala, che, però, deve ancora pronunciarsi. Nell'attesa del verdetto il team di legali italiani ha presentato un appello in via di urgenza alla Corte Suprema dove è in corso anche l'esame della petizione per il rilascio della nave Enrica Lexie.
«Quella perizia balistica indiana è falsificata in modo “evidente” e “oggettivo” nei punti dove si dichiara la colpevolezza dei militari italiani. Non sono stati i Marò del San Marco a sparare ai pescatori e tutta la verità è nei tracciati radar». Luigi Di Stefano non ha dubbi. Da freelance - l’ex consulente radaristico della compagnia aerea Itavia nell’inchiesta-rompicapo sulla strage di Ustica (27 giugno 1980, 81 vittime) - si è preso la briga, per conto del “Comitato Cittadino Marò Liberi” di studiare la dinamica dell’accaduto e di riscrivere le conclusioni dell’affaire Marò. «La sicurezza di avere “prove inoppugnabili” sulla responsabilità dei due militari italiani - spiega l’esperto rendendo pubblico il suo studio sul sito seeninside.net/piracy - è totalmente campata in aria. Le autorità indiane sapevano fin dal 16 febbraio (giorno successivo ai fatti e giorno dell’autopsia sui cadaveri) che il calibro della pallottola repertata non era quello delle armi italiane (Beretta 70/90 calibro 5,56 Nato, ndr), per cui non si capisce quale sia il supporto a queste roboanti dichiarazioni, ma, soprattutto, ai provvedimenti di arresto eseguiti successivamente a carico dei due militari italiani e al fermo della nave Enrica Lexie. L’unico elemento che ritorna e regge alle opportune verifiche - va avanti il tecnico - è la rotta della nave Enrica Lexie, congrua per spazi, tempi e velocità con quanto dichiarato dalla parte italiana. Così come le dichiarazioni dei due Marò che affermano di non aver colpito nessuna imbarcazione, tantomeno il peschereccio St. Antony. Tutto il resto si sbriciola non appena si compiono verifiche seguendo le più elementari metodologie di un’indagine tecnico-giudiziaria». A questo punto Di Stefano elenca le incongruenze, compiendo una rilettura del caso che scagiona i due fucilieri del San Marco, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, tuttora detenuti in India. «Il calibro del proiettile è incompatibile con le armi in dotazione ai nostri militari. La Enrica Lexie, nel momento in cui il peschereccio St. Antony viene colpito, - spiega l’ex consulente del caso Ustica - si trovava 27 miglia più a nord. Il ruolo della Olympic Flair non è stato investigato, è stato permesso a questa nave di eclissarsi, e abbiamo visto che anche quest’ultima ha dichiarato di aver subito un attacco pirata addirittura nella rada del porto di Kochi. Gli autori dell’omicidio dei due pescatori vanno ricercati altrove, piuttosto che nel personale imbarcato sulla Enrica Lexie, e nuove conferme potranno arrivare - chiosa Di Stefano - solo esaminando i tracciati radar».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto [pdf]

Clemente MastellaE’ stato un giudice a staccare la spina. E ora Il Campanile non suona più. La sezione fallimentare del tribunale di Roma, con sentenza del 29 marzo, ha messo la parola fine alla travagliata storia del fu quotidiano dell’Udeur. In stampa fino al dicembre del 2009, il quotidiano del partito di Clemente Mastella, suonava puntuale come un orologio svizzero, ovviamente a colpi di contributi pubblici. Poi la cessione e l’inizio della fine, arrivata a colpi di carte bollate in un’aula di Tribunale su istanza (di fallimento) presentata da un gruppo di ex dipendenti (rappresentati dagli avvocati Raffaele Nardoianni e Giorgia Loreti) della cooperativa editrice Il Campanile Nuovo, nella speranza di recuperare stipendi arretrati e Tfr.
DALLE STAMPE ALLE STALLE. La storia del foglio di largo Arenula inizia dodici anni fa, ed è simile a quella di tanti altri house organ di partito. Quasi invisibile nelle edicole, pochi giornalisti e una testata – almeno fino a quando l’Udeur era in Parlamento – gestita da una cooperativa saldamente ancorata ai contributi statali per l’editoria. La favola cambia decisamente trama il 16 gennaio 2008, quando Clemente Mastella, prima si dimette da ministro della Giustizia, poi ritira la fiducia al governo guidato da Romano Prodi, che cadrà qualche giorno più tardi al Senato al termine della drammatica seduta che lasciò alla storia lo sputo di Tommaso Barbato (rimasto fedele a Mastella) a Nuccio Cusumano (in rotta con l’Udeur decise di sostenere Prodi). L’Udeur pagherà dazio alle successive elezioni salutando il Parlamento. Per il Campanile è l’inizio di una lunga agonia, che terminerà con la sentenza di fallimento.
CONTRIBUTO CLANDESTINO. Orfana del suo partito, ma non ancora del contributo statale, la testata dell’Udeur nel dicembre del 2009 viene ceduta ad una compagine di nuovi soci, che ha il «partner imprenditoriale e finanziario di riferimento» nell’imprenditore Fabio Caso, già celebre alle cronache per il tentativo di acquisto nel 2008 de L’Unità, l’avventura (brevissima) di Dieci e il naufragio de Il Globo nei primi anni 2000. L’operazione va a buon fine e sarà chiusa, guarda caso, proprio in concomitanza dell’accredito del contributo 2009 (relativo al 2008): una somma compresa tra i 600 e i 700 mila euro. “Il Clandestino, un giornale non a Caso”, recitava lo slogan di lancio della nuova testata, già in edicola da qualche mese al momento dell’acquisizione della cooperativa Il Campanile Nuovo. Che dopo l’acquisizione diventerà editrice proprio del Clandestino. Una nuova avventura che, come nel copione di un film già visto, è destinata a durare poco. Fino al 18 marzo 2010, dopo un’escalation di tensioni interne alla redazione che fecero saltare ben quattro direttori: David Parenzo, Pierluigi Diaco e i fratelli Luigi e Ambrogio Crespi. Emblematico, al riguardo, il telegramma inviato - un attimo prima del botto - proprio da Ambrogio Crespi al presidente della cooperativa, e per conoscenza a Fabio Caso. Crespi annuncia le dimissioni dalla carica di consigliere di amministrazione del Campanile, ma i passaggi più significativi di quel telegramma sono altri. La redazione decide di pubblicarlo: lo impagina nella prima dell’edizione del giorno dopo, ma mai arrivata in edicola. Cosa c’è scritto? E’ un’anticipazione di quanto sta per accadere: «Ho appreso - scrive il direttore editoriale, Amin essere da questa cooperativa non consentirebbero una prosecuzione utile agli scopi per la quale ci siamo determinati». Poi i dubbi: «Sono stati effettuati dal conto corrente della cooperativa, dalla Bnl presso il Senato della Repubblica, dei prelievi di importi rilevanti senza alcuna forma di consultazione preventiva, condivisione di strategia e, non ultima, valutazione di opportunità». Prosegue Crespi: «I contratti di lavoro del personale giornalistico sono stati regolarmente trasferiti in data 1° febbraio da Edizioni Clandestine alla Cooperativa Campanile Nuovo ma le buste paga distribuite a marzo riportano ancora le Edizioni Clandestine. Resta chiaro l’errore materiale ma lo stesso suggerisce anche una possibile mancata comunicazione agli organi di gestione delle buste paga anche ai fini previdenziali e contributivi dell’avvenuto trasferimento». Perciò le buste paga erano finte. E’ ancora Crespi a spiegare a tutti che stavolta l’avventura è davvero finita: «Non esisterebbe alcun documento formale che consentirebbe alla Cooperativa Campanile Nuovo l’utilizzo della testa “Il Clandestino” di proprietà delle Edizioni Clandestine Srl. Il pagamento di alcuni fornitori di massima importanza non è stato onorato. Tra questi, il collegio sindacale che rischia di pregiudicare la possibilità di ottenere il contributo pubblico».
TITOLI DI CODA. Il contributo è perso, un mese dopo Fabio Caso e suo padre Gian Gaetano finiscono in manette (e successivamente scarcerati) con l’accusa (relativa ad altre vicende) di abusivismo bancario, false fatturazioni e bancarotta fraudolenta, il Clandestino non tornerà mai più in edicola. Della cooperativa Il Campanile Nuovo resta, invece, solo una scatola vuota.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 26 aprile 2012 [pdf]

Il tema spinoso delle intercettazioni sembrava finito nel dimenticatoio. Sorpassato dallo spread impazzito, dall’articolo 18 e dalla caduta anticipata di Silvio Berlusconi, il premier (pardon, l’ex) che – più di altri – provò a caricare sulle spalle degli italiani una paura in più: quella di essere spiati al telefono. Per intenderci stiamo parlando di una materia talmente complicata, quasi quanto regolare il conflitto d’interessi, che ha visto due governi, prima Prodi e poi Berlusconi, alle prese con un ddl mai nato, ma da tutti invocato a gran voce, guarda caso ogni volta che un politico – di destra o di sinistra – finiva intercettato da una procura. La bozza la portò all’attenzione del parlamento una vittima illustre dei telefoni sotto controllo, l’ex guardasigilli Clemente Mastella, il cui traffico telefonico (cosa ben diversa da quello fonico) finì – illegalmente secondo la Procura di Roma – negli atti dell’inchiesta Why Not? condotta dall’allora pm Luigi de Magistris e dal suo consulente, Gioacchino Genchi. Entrambi sono sotto processo, a Roma (la prima udienza ci sarà il prossimo 17 aprile), perché, secondo l’accusa, chiesero alle compagnie telefoniche di “sbirciare” nel traffico di migliaia di utenze, tra le quali anche quelle di parlamentari e agenti segreti, senza chiedere la preventiva autorizzazione alle Camere. ...continua a leggere "Bavaglio & Business"

canadairNon c’è pace per la flotta Canadair del Dipartimento della protezione civile. Prima il fallimento della Sorem, il blocco dei voli e degli stipendi, poi il cambio di gestione e ora sui 19 bimotore antincendio di proprietà dello Stato incombe anche la spending review. Dopo il nuovo appalto, affidato a gennaio dal Dipartimento della protezione civile alla società italo-spagnola Inaer Helycopter per 40 milioni di euro l’anno, la gestione della flotta Canadair sembrava navigare in acque tranquille, ma le recenti dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, potrebbero rimettere tutto in discussione, a pochi mesi dalla campagna estiva antincendio. Catricalà, intervenendo recentemente a Ballarò, ha annunciato l’intenzione del governo di liberarsi della flotta «che può essere gestita - ha poi aggiunto - più economicamente da vigili del fuoco e aeronautica militare». Secca la risposta dei piloti del gruppo Canadair: «Sono parole che gettano nello sconforto centinaia di lavoratori che credevano di essere finalmente usciti da una situazione di crisi, per merito degli ingenti sforzi attuati dalla nuova società di gestione e che invece, nel giro di poco tempo, si ritrovano nuovamente a dover convivere con il peggior incubo di ogni lavoratore, perdere il proprio lavoro. Con questa esternazione – scrive in una lettera inviata a Catricalà il vicepresidente del Gruppo volo Canadair, Mauro Tramonti -, non solo mette a rischio il nostro lavoro ma, con un colpo di spugna, azzera il know-how acquisito in tanti anni (anche perdendo qualche nostro collega) che ha permesso alla nostra nazione di essere leader mondiale del settore». ...continua a leggere "Dove osano i Canadair"