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Matteo RenziNon convince gli esperti del settore e trova scarsi consensi da parte delle associazioni che rappresentano i familiari delle vittime, e se alle parole non seguiranno i fatti, come spesso accade nel paese degli eterni segreti, l'intenzione del premier Matteo Renzi di declassificare i documenti sulle stragi potrebbe rivelarsi un flop.
Dalle colonne di Repubblica, nell'edizione di oggi, tra molti dubbi, la proposta di Palazzo Chigi è timidamente ben accolta dall'ex giudice istruttore Rosario Priore, uno dei magistrati che più si è occupato dei misteri italiani, dalla strage di Ustica all'attentato a Giovanni Paolo II.
«Sono d'accordo con Renzi - spiega il giudice - nel rimettere in attività le inchieste sulle stragi. Ci sono di sicuro delle notizie negli archivi dei nostri Servizi. Ma devono essere sfuggite alla cernita quelli, molto interessanti, conservati dalle intelligence estere. In particolare nei Paesi dell'Est». «Di fronte a questo mondo di carte e documenti all'estero - prosegue Priore -, non vorrei sembrare offensivo, ma mi pare ridicolo il tentativo di chi cerca di dare tutte le responsabilità delle stragi in Italia a qualche ragazzino disperato di destra o di sinistra».
Secondo Priore dietro le stragi italiane «ci sono responsabilità molto gravi di organizzazioni internazionali, di Stati, e anche di molti servizi segreti non italiani». Pur con queste riserve, Priore salva l'iniziativa di Renzi perché «potrebbe essere il colpo d'ala ad ulteriori ricerche per raggiungere la verità storica».
Sulle stragi di mafia del '93-'94 «non c'è segreto di Stato, ma ci sono documenti nascosti in qualche cassetto o in qualche armadio. E soprattutto ci sono persone che non vogliono parlare», ha dichiarato, invece, Giovanna Maggiani Chelli, la presidente dell'Associazione fra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili. La Maggiani Chelli auspica che venga tolto «il segreto di Stato sulla discarica di Pitelli».
«Negli anni novanta - ricorda - alcuni documenti relativi a quella vicenda vennero trasmessi ai magistrati fiorentini che si occupavano delle stragi. Erano atti secretati. Non abbiamo mai saputo cosa ci fosse scritto. Magari dentro non c'è nulla di rilevante, ma sarebbe interessante sapere cosa contengono».
«Non c'è nessun segreto di stato sulle stragi. Non su quelle cosiddette classiche. Ma ci sono ancora una serie di atti che possono riguardare polizia o carabinieri che, se resi pubblici, possono contribuire a fare luce su fatti del passato», commenta Felice Casson, oggi parlamentare del Pd e segretario del Copasir, in passato magistrato impegnato, come Priore, in delicate inchieste su stragi e terrorismo.
Renzi ha citato le stragi "classiche", come piazza Fontana e quella di Bologna, «ma su quelle stragi non esiste nessun segreto opposto alla magistratura che indaga, per tutelare persone o circostanze che non si vorrebbero rendere pubbliche», perché la legge non lo consente. «Ci sono atti che devono essere desecretati - ha aggiunto Casson - , secondo legge ordinaria, dall'autorità preposta e visto che si tratta di atti dei servizi è il presidente del Consiglio che può dare indicazioni».
Secondo il parlamentare, tuttavia, «non ci sarà nessuna novità» ma l'intenzione espressa dal premier Renzi «è certamente positiva perché può portare ad abbreviare i tempi di desecretazione di tutta una serie di atti dei servizi segreti, che possono riguardare anche carabinieri o polizia, utili ad accertare fatti del passato».
«Bene l'annuncio del premier Matteo Renzi ma sarebbe necessaria la desecretazione di altri archivi per illuminare le zone grigie della storia», commenta il deputato Pd, Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna. «Bisognerebbe avere la possibilità di avere la disponibilità degli archivi militari - ha aggiunto -, degli archivi del ministero degli Esteri e di quello dei carabinieri».
Anche Daria Bonfietti, ex senatrice dei Ds e presidente dell'Associazione familiari delle vittime di Ustica, parla di notizia positiva «ma non decisiva ai fini della verità». «Credo che sia uno slogan vecchio, molto usato - ha aggiunto - e continuo a pensare, come è vero, che per la maggior parte di stragi delle quali parliamo non sono stati mai apposti segreti di Stato. La legge 801, ma anche le revisioni che sono state fatte, eliminano la possibilità di mettere sulle stragi il segreto di Stato».

di Fabrizio Colarieti

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MoroChi era il colonnello Camillo Guglielmi, l’agente segreto che la mattina del 16 marzo 1978 si trovò – a suo dire perché invitato a pranzo da un collega – all’incrocio tra via Fani e via Stresa, proprio mentre le Brigate Rosse rapivano Aldo Moro? Il suo nome, da trentasei anni, entra ed esce dalle inchieste e ora lo chiamano in causa anche le ultime rivelazioni dell’Ansa sul presunto coinvolgimento di altri due agenti del Sismi che quella stessa mattina si trovavano in via Fani in sella a una moto.
Tracce della carriera di Guglielmi, soprannominato “Papà”, emergono dal resoconto di un’audizione in Commissione stragi dell’ex ministro della Difesa, Cesare Previti. Nel ’78 l’ufficiale era in forza alla Legione Carabinieri di Parma dalla quale venne collocato in congedo il 15 aprile 1978, dunque in pieno sequestro Moro. Dal 1° luglio 1978 Guglielmi, secondo quando riferì Previti, prestò servizio presso il Sismi in qualità di consulente “esperto”, rapporto che si consolidò in breve tempo fino alla sua assunzione nel Servizio segreto militare, datata 22 gennaio 1979. Lo 007, assegnato all’ufficio “R” controllo e sicurezza con l’incarico di dirigere la sezione che si occupava dell’affidabilità dei dipendenti di Forte Braschi, lasciò il Sismi il 31 dicembre dello stesso anno. Venne trasferito all’8° Comando militare territoriale di Roma ma continuò a collaborare con il controspionaggio militare fino al 30 novembre 1981. Guglielmi morì di crepacuore nel gennaio 1992 all’età di 68 anni. ...continua a leggere "Chi era Camillo Guglielmi, l’agente segreto dei misteri di via Fani"

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Aldo MoroUn'operazione perfetta, da manuale. I periti balistici definirono così l’agguato di via Mario Fani in cui persero la vita tutti gli uomini della scorta di Aldo Moro. E in quell'azione prese parte anche un misterioso "cecchino", mai identificato, che in pochi secondi, con grande freddezza e precisione, annientò la scorta esplodendo da solo ben 49 colpi sui 91 repertati.
Erano le 9.02 del 16 marzo 1978, quando la Fiat 132, guidata dall'appuntato Domenico Ricci e con a bordo il presidente della Dc e il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, percorreva via Fani, seguita dall'Alfetta con i tre agenti della scorta, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Le due vetture erano partite, come quasi ogni mattina, dall'abitazione di Moro, in via del Forte Trionfale, e, seguendo il percorso abituale verso il centro, avevano raggiunto via Fani.
L'agguato avvenne nell'arco di una manciata di minuti davanti al bar Olivetti, a pochi metri dall'incrocio con via Stresa. Una Fiat 128 con targa diplomatica, guidata dal brigatista Mario Moretti, frenando bruscamente tamponò l'auto di Moro. Nei successivi tre minuti il commando di brigatisti, che secondo le ricostruzioni ufficiali era formato da 9 persone che indossavano divise di avieri civili, annientò gli uomini della scorta e sequestrò il presidente della Dc. ...continua a leggere "Il giallo del “cecchino” di via Fani, non era un brigatista e sparò 49 colpi"

Aldo MoroTrentasei anni dopo l’eccidio di via Fani, il sequestro e la condanna a morte del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, il Parlamento, per la terza volta, tornerà a indagare su uno dei misteri più intrigati della storia repubblicana. La Camera, infatti, ha approvato ieri (269 favorevoli, 73 contrari) la proposta di legge del Partito Democratico, largamente condivisa anche da altre forze politiche, per istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta che avrà il compito di accertare «nuovi elementi che possano integrare le conoscenze già acquisite dalle precedenti Commissioni» ed eventuali responsabilità «riconducibili ad apparati, strutture e organizzazioni comunque denominati ovvero a persone a essi appartenenti o appartenute». Ora il testo del provvedimento passerà al Senato.
La Commissione d’inchiesta, la cui proposta di istituzione aveva come primi firmatari i parlamentari del Pd Giuseppe Fioroni e Gero Grassi, avrà diciotto mesi di tempo per completare i propri lavori e trasmettere al Parlamento una relazione. Sarà composta da 25 senatori e da 25 deputati e avrà un presidente, eletto tra i suoi componenti. I poteri di cui disporrà saranno analoghi a quelli della magistratura e, dunque, l’organismo potrà avvalersi non solo di consulenti esterni ma anche di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria.
Il perché di una nuova Commissione è spiegato nella proposta approvata a Montecitorio e in un voluminoso dossier presentato nelle scorse settimane dai parlamentari del Pd che, nel ripercorre quei terribili 55 giorni, mette in luce tutti i “buchi neri” del caso Moro. «I lavori delle precedenti Commissioni – scrivono i parlamentari proponenti – hanno dimostrato che non vi è un’impossibilità oggettiva di risalire alla ricostruzione precisa della dinamica. Quello che turba sono invece le reticenze e le omissioni che hanno impedito alla verità di emergere completamente. La presente proposta di inchiesta parlamentare ha l’ambizione di scrivere la parola fine accertando la verità storica dell’evento, ma anche di recuperare il ritardo e le omissioni dello Stato sull’intera vicenda. Ancora troppi, infatti, a distanza di oltre trentacinque anni, sono i lati oscuri dell’azione terroristica e di quella difensiva dello Stato. Spiace purtroppo constatare che, fatti salvi alcuni importanti servizi radiotelevisivi e molti libri scritti sull’evento, ancora oggi esiste una reticenza generale a discutere del caso Moro, di cui si parla solo in occasione delle ricorrenze del 16 marzo e del 9 maggio. Evidentemente, nonostante il trascorrere degli anni, permane un senso di colpa su quello che lo Stato poteva e doveva fare per la liberazione dello statista democristiano e che invece non ha fatto o non ha fatto completamente».
“«Siamo convinti che il nostro Paese ha bisogno della verità sul caso Moro – ha dichiaratoGero Grassi commentando l’approvazione della pdl – e per questo riteniamo molto importante l’istituzione di  una nuova Commissione d’’inchiesta. Infatti sarà utile un grande lavoro di sintesi e di analisi dei fatti emersi nel corso degli anni recenti e di un luogo istituzionale che si occupi di raccogliere e rendere pubblici tutti di documenti, molti ancora sparsi tra vari enti, tantissimi ancora ‘classificati’ (come è il caso dei circa 30% di quelli conservati dall’’archivio storico del Senato), prodotti sul rapimento e l’’uccisione del presidente della Democrazia cristiana. La verità sul caso Moro, che ha rappresentato uno spartiacque nella storia del nostro paese, può illuminare il nostro passato e quel tragico fatto ma può aiutarci anche a guardare con maggiore lucidità e consapevolezza il futuro. Per questo l’’opposizione distruttiva del Movimento 5 Stelle è stata del tutto incomprensibile e politicamente sbagliata, visto che nei loro interventi anche i deputati grillini riconoscono la necessità di ricostruire una verità. Particolarmente confusa la loro proposta di inserire tra i compiti della commissione anche un’inchiesta sulla tragedia di Ustica, che ci porterebbe lontano dal nostro obiettivo, e di rimuovere le disposizioni relative al segreto di Stato che, in realtà, come è noto, non è opponibile in caso di stragi. Dunque, non sono emersi ragionevoli punti di criticità riguardo alla istituzione della Commissione – ha concluso l’esponente Democratico – con la quale ci assumiamo la responsabilità di svolgere un serio lavoro al servizio della verità”».
Nella storia ci sono già due precedenti. La prima Commissione parlamentare d’inchiesta che tentò si fare luce sul rapimento e l’uccisione del presidente Moro fu istituita nel novembre del’79. Vi parteciparono uomini del calibro di Leonardo SciasciaUgo PecchioliRaniero la Valle e Sergio Flamigni. Nel ’88, nel corso della X legislatura, il Parlamento tornò a indagare, anche sul caso Moro, istituendo la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi.

di Fabrizio Colarieti